ROMA Sarà che a Renzi l’antica formula “pas d’ennemi a gauche” non fa né caldo né freddo. Sarà che andando a toccare l’articolo 18 il rottamatore aveva già messo in conto la reazione della contraerea rossa. Ma chissà se se l’aspettava proprio così la piazza: lui, segretario democrat, assimilato a Berlusconi. Lui, bersaglio del popolo della sinistra, degli stessi che probabilmente lo votarono alle europee. Per non parlare della “sue” bandiere, quelle del Pd, mischiate, contaminate, spinte da un vento contrario.
«Stiamo meglio qui che alla Leopolda», rivendica Ermanno Eugeni, iscritto al Circolo Gino Giugni di Milano. Non è un dirigente. É uno della “base”, un pezzo del partito che si riconosce nella mozione Cuperlo: «Abbiamo scritto a Renzi - riprende lui - e non ci ha risposto, gli abbiamo inviato il documento che abbiamo votato. Nisba». É una presenza, non l’unica, quella loro, che mette alla prova i succhi gastrici renziani.
ZONA FRANCA
I dissidenti dem finiti in una zona franca e imprecisata della sinistra dove gli 80 euro e il bonus alle neo mamme risultano non pervenuti, e comunque non verrebbero considerati sufficienti a estinguere il “reato”: aver dissacrato l’articolo 18.
L’ex sindaco di Napoli ed ex presidente della Regione Campania Antonio Bassolino mentre si aggira in piazza San Giovanni sembra uno dei tanti e non un ex amministratore che ha gestito potere e tessere. In questa giostra di contraddizioni il suo è un caso limite. «Non faccio parte della minoranza - dice - anzi mi considero renziano. Eppure sono qui. Dove sennò? Alla Leopolda? Con la Leopolda questa piazza deve dialogare, il Paese si cambia anche così». Il dialogo lo invoca anche Gianni Cuperlo, che ha sfilato con i poligrafici dell’Unità: «Questa piazza va ascoltata, mi auguro che in Parlamento ci siano le condizioni e la volontà per migliorare la legge delega sul lavoro. Non siamo in piazza per gufare ma perché vogliamo essere accanto ai lavoratori». E la disciplina di partito? «É saltata ad aprile 2013 - è la risposta dell’ex sottosegretario all’Economia Stefano Fassina - quando oggi chi la invoca, votò in modo difforme dalla maggioranza sull'elezione del presidente della Repubblica». E c’era anche Pippo Civati mai come ieri in vena di battute. La prima per Renzi: «La Leopolda è casa tua». La seconda è per il finanziere Davide Serra: «Mi sa che alla Leopolda c’è anche una delegazione della destra repubblicana statunitense...».
Per la Cgil il giorno più lungo è iniziato notte tempo con i 2500 pullman partiti per portare a Roma i manifestanti, arrivati anche con treni speciali e, dalla Sardegna, in traghetto. «Il viaggio è gratis, il pranzo a spese nostre», giura un anziano pescatore di Reggio Calabria, costretto a fermarsi a metà corteo per «problemi di pressione». Le analogie con la piazza del 2002 che provò a disarcionare Berlusconi si sprecano. Ma anche le differenze. A partire da quella principale: il popolo della sinistra che si ricolloca e si radicalizza. E la Fiom a cui il copione inizia a stare stretto dinanzi alle praterie, agli spazi lasciati vuoti dal Pd. Il segretario Fiom, ossia Landini, getta già il cuore oltre l’ostacolo, lo sciopero generale che potrebbe «non essere sufficiente» perché, dice, «qui tutti i giorni ci sono aziende che annunciano chiusure, multinazionali che delocalizzano». E il segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero, lo vede «leader» ma non vuole «tirarlo per la giacchietta».
SFOTTO’
Sergio Cofferati è un altro che ieri non poteva non esserci. «Nel 2002 - è il giudizio dell'ex sindacalista e sindaco di Bologna - tantissime persone scesero in piazza per difendere i loro diritti dal tentativo di cancellarli da parte di un governo ostile. Ora è l’ opposto: la mobilitazione è la stessa ma manifestano contro un governo di centrosinistra che hanno votato». Il rottamatore protagonista assoluto di slogan, striscioni e sfottò: “Tu in camicia bianca, noi in maglietta rossa”; ”maledetti toscani”. Tra i tanti accenni al patto del Nazareno sul taccuino abbiamo appuntato quello che un po’ li sintetizza: “Se ’sto Renzi è di sinistra, Berlusconi è femminista...”. La piazza insomma come sbocco obbligato. Punto di arrivo di un disagio interno ed esterno ai sindacati e al Pd. Primo avviso per Renzi? «Ho visto un piazza “vera” con tanti lavoratori, come non se ne vedevano da tempo - sostiene Walter Tocci, il senatore pd che ha votato il Jobs act e un minuto dopo si è dimesso -. Non può essere solo il risultato di uno sforzo organizzativo. Sono state toccate le corde alle quali il mondo sociale Cgil è più sensibile».