FIRENZE Alza il tono della voce, più e più volte, come non aveva fatto nei due giorni precedenti, quando si era limitato a taglienti stoccate. Qualcuno nella platea della Leopolda dice: «Avete visto? Siamo ancora di lotta». In realtà Matteo Renzi chiude la kermesse e regola i conti con tutti. Li regola con la minoranza Pd, colpevole di aver definito questo appuntamento - che è il più profondamente renziano che esista, una sorta di brodo primordiale del riformismo modello Matteo - «imbarazzante». Li regola con la Cgil che sabato è scesa in piazza contro di lui, e poi ancora con l’Unione europea fautrice dell’austerità e con la cancelliera Angela Merkel. Insomma con tutti quelli che, in conclusione di questa mega assemblea-workshop da diciannovemila partecipanti, il premier-segretario definisce i «professionisti della gufata». Più strilla dal palco e più il leader pop, in casa Leopolda, viene applaudito. Più è spietato e più viene apprezzato: «Adesso ci tocca cambiare l’Italia, l’abbiamo voluto noi ma quando arriveremo al traguardo ci riconosceranno perché saremo quelli con la maglia rosa». Il premier sente di avere la vittoria già in tasca. Di chi, come Rosy Bindi, ieri era in piazza contro il governo, non se ne cura perché, nella continua contrapposizione tra il vecchio e il nuovo, loro sono il vecchio e lui il nuovo: «Rispetto tutti, ma non consentiremo a chi ha detto ieri che la Leopolda è imbarazzante, a quella classe dirigente, di riprendersi il Pd per riportarlo dal 41 al 25%. Non consentiremo di fare del Pd il partito dei reduci, saremo il partito dei pionieri». Poi è lo stesso Renzi ad evocare la scissione e a lanciare un avvertimento a chi ipotizza di lasciare il partito: «Non ho paura che si crei a sinistra qualcosa di nuovo». Al diavolo perciò la teoria di chi pensa che non ci debba essere qualcuno più a sinistra di se stesso. Anche perché il premier, nella sostanza, dice di essere lui la sinistra. Anzi, il popolo della Leopolda è la sinistra. E anche tanto. «Sarà bello capire se è di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o se è di sinistra capire il futuro e provare a cambiarlo». Fare la battaglia sull’articolo 18 «è come prendere una macchina digitale e cercare di inserirci il rullino: è finita l’Italia del rullino! E nel 2014 - dice Renzi - aggrapparsi ad una norma del 1970, che la sinistra di allora tra l’altro non votò, è come pensare di prendere un iPhone e dire, “dove lo metto il gettone del telefono?” Rivendico per la sinistra l’Italia del digitale!». Ancora, da una parte il vecchio e dall’altro il nuovo: «Di fronte a un mondo che cambia dobbiamo far sì che ci sia un contratto a tempo indeterminato, ma il posto fisso non c’è più. Il precariato non si batte con i cortei». Il jobs act dà «tutele per chi non le ha», e la legge di stabilità «non è una manovra elettorale ma un’operazione di giustizia sociale. Quando dico “diamo 80 euro” sono il Giorgio Mastrota “de noantri”; quando dico in modo complicato le cose, che magari non si capiscono, divento un intellettuale organico». Comunque sia, «basta con i piagnoni, rimbocchiamoci le maniche». Ed è in maniche di camicia, rigorosamente bianca, che il premier si presenta nel “garage Leopolda”, dove i cartelloni e i gadget parlano di “gufi”. Tra questi, Renzi cita il “ceto medio intellettuale” che fa come quel pensionato che «guarda il cantiere e scuote la testa dicendo “non ce la fanno a finire”». Il premier rivendica rispetto in Europa. La Ue deve «smettere di concentrarsi sull’austerità. Noi teniamo i conti in ordine, ma l’Europa è nata per creare posti di lavoro. Siamo un partito che ha preso più di 11 milioni di voti. Con la Merkel in un Consiglio Europeo mi sono tolto una soddisfazione: “te Angela hai preso 10,6 milioni di voti, noi 11,2 milioni”. Sono cose che capitano...». Ovazione. Musica. E intanto è saltato il contraddittorio con il segretario fiorentino della Fiom, Daniele Colosi, che lamenta: «Non mi hanno messo in scaletta». La giornata è finita, la partita no.