ROMA «Inutile girarci intorno, Renzi ha capito che sfottendo i sindacati e dribblando Confindustria guadagna voti. Infatti esagera: da una parte dice che il posto fisso non c’è più ma poi nel Jobs Act,infila meno di quel che dice». Come al solito senza peli sulla lingua, l’ex sindacalista Giuliano Cazzola pennella così lla strategia governativa sullo scacchiere governo-parti sociali.
Per la verità, nelle democrazie occidentali il fenomeno della raccolta di consenso attorno al ridimensionamento di corpi intermedi non è un inedito. Accadde in Gran Bretagna con la Thatcher che piegò Unions strapotenti e con Reagan che polverizzò i sindacati dei controllori di volo colpevoli di appiedare un Paese che aveva voglia di correre. Poi i leader del centro sinistra inglese, Tony Blair, e di quello tedesco, Gerard Schroeder, con modalità diverse, mantennero la barra diritta sulla rotta della liberalizzazione del lavoro. Renzi, dunque, è su questa strada? E, se sì, a quali modelli europei può ispirarsi?
«Il premier è convinto di vivere nell’era della disintermediazione - spiega il bocconiano Giuseppe Berta - Non è andato all’assemblea della Confindustria ma ha visitato direttamente parecchie fabbriche e ha partecipato a riunioni di industriali locali attraverso i quali ha parlato ai lavoratori».
AZIENDE TRAINANTI
A parere di Berta, Renzi punta ad un rapporto diretto con le basi sociali di sindacati e Confindustria. Punta su imprese trainanti ed eccellenti. «Renzi - analizza Berta - E’ il primo che riconosce la positività della scelta di Marchionne di varare nel 2011 un proprio contratto aziendale. Perché era una scelta giusta che parificava Fiat alle altre grandi imprese Ue e spingeva a creare maggiore ricchezza nelle fabbriche».
Ecco il primo dei pilastri intorno al quale misurare un possibile ”modello Renzi” di nuove relazioni industriali: il sistema dei contratti. Davvero in Italia peseranno più i contratti aziendali di quello nazionale come ha deciso di fare la Spagna due anni fa e come fa intravvedere il Jobs Act? All’estero funziona così: il contratto nazionale è un lontano ricordo in Gran Bretagna dove tuttavia i sindacati mantengono 6 milioni di iscritti fra i lavoratori attivi. Anche in Germania, paese federale con un sindacato unico e un sistema di codeterminazione (partecipazione del sindacato alle scelte strategiche delle aziende) molto sofisticato, le grandi imprese hanno ognuna un proprio contratto mentre le piccole e medie imprese hanno la facoltà di aderire a contratti regionali di riferimento. In Francia ”regole” nazionali hanno valore per alcune categorie molto sindacalizzate, come gli insegnanti, mentre nelle fabbriche sindacati e contratti sono polverizzati.
Ci sarebbe poi un altro grimaldello per impiantare in Italia relazioni sindacali di stampo europeo: il salario orario minimo (anch’esso presente genericamente nel Jobs Act). Si tratterebbe di una rivoluzione perché sottrarrebbe alle parti sociali (anche a Confindustria) il monopoli su un punto chiave dei contratti: i soldi. Il salario orario minimo ha un triplo pregio: aiuta (tutti) i lavoratori più poveri; riduce il lavoro nero; trasferisce potere agli elettori perché i partiti di sinistra che vincono le elezioni (lo ha fatto anche Obama) lo alzano per legge. La maggioranza dei Paesi occidentali ha il salario minimo.
«Vedremo - chiosa Bruno Manghi, uno degli intellettuali vicini Cisl della Furlan - La concertazione è servita quando la politica era debole. Ora invece il sindacato deve tentare di rappresentare il lavoro che c’è. Non è impossibile. Siamo messi meglio dei rappresentanti delle imprese, delle professioni e persino di quelli delle fedi religiose. Il sindacato deve cambiare ma quando utile non va sottovalutato».