«Se vince Renzi è un problema», aveva detto Susanna Camusso il giorno delle primarie 2012 con Bersani, e in effetti lo è stato: almeno per la Cgil, che due anni dopo si ritrova in una posizione non invidiabile. Ignorato - addirittura sbeffeggiato, dicono a Corso Italia - dal presidente del Consiglio, il sindacato porta in piazza un milione di persone contro un governo al quale il suo ultimo segretario generale, Epifani, finora non ha mai negato la fiducia. Utile portatore d’acqua in tutte le primarie, spesso addirittura determinante nel risultato finale, si sente ora rinfacciare dal Pd di tessere fasulle e di pullman pagati. Proprio dal Pd, che quei pullman - quando servivano, ai gazebo per le conte interne o a San Giovanni contro Berlusconi - non li ha mai rimandati indietro. Era chiaro che, prima o poi, il collateralismo dovesse finire. E non è un male, né per la politica né per i sindacati: la cinghia di trasmissione troppo stretta, infatti, ha portato soltanto a una confusione di ruoli, a un sistema di vasi comunicanti che non ha giovato a nessuno. I partiti, e quelli di sinistra in primo luogo, hanno cercato di non pestare troppo i piedi alla potenziale base elettorale; i sindacalisti, da parte loro, hanno spesso concluso le proprie carriere in Parlamento, spostandosi solo sull’altra riva del medesimo fiume. Basti guardare il numero dei parlamentari Pd provenienti dalla Cgil: non peones di primo pelo, ma vicepresidenti del Senato, presidenti di Commissione (Lavoro) e sottosegretari (al Lavoro, naturalmente). Ora, tra un insulto da bar e l’altro, si apre finalmente lo spazio perché ognuno torni a fare il proprio mestiere: perché i sindacati, cioè, si rinnovino nella sfida di rappresentare anche i milioni di lavoratori non rappresentati da nessuno, e perché la politica si prenda le responsabilità delle scelte. Ma che le strade si stiano separando, e che forse si siano già separate per sempre, deve essere chiaro: il circolo di partito aziendale, così popolare in altri momenti storici, sta diventando da qualche anno un reperto di modernariato. E la personalizzazione della politica, unita alla disintermediazione, sta facendo il resto. Certo, se Bersani avesse vinto le elezioni del 2013, anziché non perderle, il cambiamento sarebbe stato più lento e oggi si racconterebbe una storia diversa: i sindacalisti eletti nel Pd svolgerebbero un ruolo di cerniera e non di comparsa, e tutti gli altri parlamentari di maggioranza - compresi quelli che oggi fanno i guasconi - si guarderebbero bene dal cercare lo scontro, ancora convinti che una sinistra al governo senza l’appoggio della Cgil sia impossibile in natura. Anche se fosse rimasto Letta, probabilmente, la storia sarebbe un’altra: è vero che i rapporti con Camusso non erano idilliaci, ma rientravano nell’ordine delle schermaglie dialettiche e mai si sarebbe arrivati allo sciopero generale. Adesso, invece, sembra che la Cgil non abbia alternative allo scontro, in primo luogo per affermare la propria identità. Deve dimostrare ai suoi iscritti che la vicinanza o meno a un esecutivo è un problema di merito dei provvedimenti, e non di colore politico, e deve quindi riservare a Poletti lo stesso trattamento che avrebbe riservato a Sacconi, se avesse approvato misure analoghe. Ma se con la destra a Palazzo Chigi questo era più semplice, con il segretario Pd al governo le cose si complicano: perché in quel 40 e passa per cento di elettori che alle Europee votarono Renzi, e che dai sondaggi non sembra scemare, ci sono anche parecchi iscritti al sindacato, chiamati ora a scegliere tra mamma e papà. Il Pd, da parte sua, può vincere questa battaglia in due modi: da un lato, convincendo - soprattutto con i fatti - che il jobs act non è un passo indietro sulla strada dei diritti, ma un passo avanti su quella del lavoro; dall’altro, contando fino a dieci prima di rompere del tutto i ponti con la Cgil, i suoi tesserati e i suoi simpatizzanti. Non è un caso che ieri pomeriggio, dopo l’episodio degli scontri con la polizia e delle botte a Landini, proprio dal Nazareno siano arrivate le prime dichiarazioni di solidarietà.