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Pescara, 24/11/2024
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Data: 11/11/2014
Testata giornalistica: Il Messaggero
Ed. Nazionale - L’Aquila, in appello assolti gli scienziati. I parenti delle vittime: «Una vergogna». Colpevole solo De Bernardinis, dirigente della Protezione civile. L’unico condannato: «Non contesto il verdetto ho rispetto delle vittime»

L’AQUILA Sentenza di primo grado ribaltata. Sei assoluzioni perché il fatto non sussiste e una condanna a 2 anni di reclusione. La Corte d’Appello dell’Aquila non ha accolto la tesi accusatoria del procuratore generale che aveva chiesto la conferma della sentenza di primo grado e ha riformato quasi completamente la condanna a 6 anni di reclusione per omicidio colposo e lesioni colpose nei confronti dei sette esperti che il 31 marzo 2009 riunirono la commissione Grandi rischi all’Aquila, a 5 giorni dalla scossa del 6 aprile che avrebbe distrutto la città. Gli assolti sono Franco Barberi, Enzo Boschi, Giulio Selvaggi, Gian Michele Calvi e Claudio Eva. Condannato Bernardo De Bernardinis, che era numero 2 del dipartimento della Protezione civile, assolto invece per le imputazioni principali.
LE REAZIONI
Alla pronuncia della sentenza si sono scatenate le proteste in aula. «Vergogna, vergogna!» hanno gridato i familiari delle vittime e altre parti civili. La sentenza del collegio giudicante, presieduto da Fabrizia Francabandera, arriva circa 2 anni dopo quella di primo grado del giudice Marco Billi. La conferma della pena era stata chiesta dal procuratore generale Romolo Como, che ha sostenuto l’accusa nelle sei udienze del processo di secondo grado: «Immaginavo un forte ridimensionamento dei ruoli e delle pene, ma non un’assoluzione così completa, scaricando tutto su De Bernardinis, cioè sulla Protezione civile» è stato il commento a caldo di Como, che si è detto «alquanto sconcertato». «Non è una sconfitta della città, non è la città che deve risentire una decisione del giudice che, comunque, dovremo vedere perché è stata presa. Non si può investire questo processo di un significato, nemmeno quello di riabilitazione della scienza. Non è che si riabilita qualcuno con queste assoluzioni» ha concluso. «La colpa - aveva spiegato il magistrato nella sua requisitoria - non attiene al mancato allarme ma alla errata, inidonea, superficiale analisi del rischio e di una carente e fuorviante informazione che ha fatto mutare i comportamenti degli aquilani di attuare le tradizionali misure dopo scosse forti».
LA DIFESA
Nel corso del processo d’appello, le difese degli imputati, pur se con differenziazioni, hanno cercato di smontare, riuscendoci, il castello accusatorio insistendo sul fatto che quella che si svolse all’Aquila non fu una riunione ufficiale della commissione Grandi rischi. Sulla stessa lunghezza d’onda, tra gli altri, anche l’avvocato Alessandra Stefano, legale di Claudio Eva, secondo il quale si trattò di «una riunione di singoli». «Questa sentenza ci sorprende è un terremoto nel terremoto» ha detto l’avvocato di parte civile Attilio Cecchini. «La sola condanna di De Bernardinis - ha aggiunto - fa di lui l’unico capro espiatorio. Faremo sicuramente ricorso in Cassazione». Soddisfazione da parte dei difensori che, come spiega l’avvocato Franco Coppi, «ci gratifica perché sono state accolte le nostre tesi, ma siamo molto dispiaciuti per i familiari delle vittime e umanamente comprendiamo le loro reazioni». Grande soddisfazione del presidente dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), Stefano Gresta: «Una sentenza con la quale non solo viene restituita l’indiscussa onorabilità e la dignità a Giulio Selvaggi e a Enzo Boschi, ma viene anche ribadita, qualora ce ne fosse bisogno, la credibilità a tutta la comunità scientifica italiana».
LE PROTESTE
«Non finisce qui. Vergogna. Mafiosi. Uno Stato che non fa più giustizia, uno Stato che difende sé stesso» sono stati i commenti urlati, tra pianti, singhiozzi rabbiosi, dagli aquilani presenti. Veleno e rabbia in tutti i presenti «ma c’è la legge divina di Dio, che vede tutto e che esiste tuttora», è il commento di un padre che nel sisma del 6 aprile ha perso il figlio. «Ce li hanno ammazzati un’altra volta», scrolla la testa dicendo così una parente delle vittime. Scontato il ricorso in Corte di Cassazione.

L’ultima verità dopo 5 anni di processo: sanzionato solo l’errore di comunicazione

ROMA L’inchiesta su quella famosa riunione del 31 marzo 2009 partì in sordina e proseguì molto defilata, in una città ancora sotto choc e fra decine di altre inchieste che nel frattempo venivano aperte. Appariva più un’esercitazione di scuola che altro: dimostrare che gli scienziati della Commissione Grandi rischi avevano esagerato nel rassicurare la popolazione dell’Aquila a pochissimi giorni dalla tremenda scossa del 6 aprile, al punto di modificarne i comportamenti, di renderli collettivamente meno sicuri. Con un corollario logico che si sarebbe ben presto rivelato la vera pietra dello scandalo: la scienza è in grado di prevedere i terremoti.
Invece, altro che esercitazione di scuola. Si arrivò a sorpresa al rinvio a giudizio di quei sette membri della commissione e trovò terreno facile, fra gli aquilani ancora sconvolti, l’idea che proprio quell’inchiesta avesse svelato i veri «responsabili» della tragedia -e non l’abusivismo edilizio, non la mancanza di un piano anti-sisma, non l’insipienza di tante amministrazioni.
IL «PROCESSO ALLA SCIENZA»
Fu in questo clima che maturò la sentenza di primo grado, pronunciata il 23 ottobre di due anni fa: sei anni di carcere a ognuno di loro, personalità di caratura internazionale, per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Quattro ore di camera di consiglio per un verdetto che fece il giro del mondo, bollato come un insostenibile «processo alla scienza». La stampa internazionale si accanì ancora una volta sull’Italia, a cominciare dal Guardian che non risparmiò sul suo sarcasmo: «Il giudice italiano ha prodotto onde d’urto attraverso la comunità scientifica mondiale». Fino agli americani della Union of Concerned Scientist: «Immaginate un governo accusare di reati criminali un meteorologo che non è stato in grado di prevenire un tornado. O un epidemiologo per non aver previsto gli effetti di un virus...»
TUTTO AZZERATO
Due anni dopo, tutto azzerato. Un altro choc per l’Aquila, certo, un’altra ferita che comunque si riapre per i poveri familiari di quei morti, ma anche tanti tasselli che sembrano tornare al loro posto. Aspettando le motivazioni di questa sentenza d’appello, infatti, si può già immaginare che abbia molto pesato su queste assoluzioni il concetto di «comunicazione», sui cui le difese in tutte e due i gradi hanno tanto battuto.
È stato subito chiaro infatti - ma non fu sufficiente per i giudici di primo grado - che il verbale di quella riunione non poteva essere considerato un documento pubblico, non era diretto alla popolazione aquilana. Vi si riassumevano le sequenze sismiche più importanti di quei giorni, nella zona di Sulmona e nel Forlivese soprattutto, ma niente di più, niente che facesse pensare all’Aquila. Sulla base di quel documento le amministrazioni modularono i loro annunci alla popolazione: come dire, si trattò di una interpretazione di quei dati, di un difetto di comunicazione appunto.
La sentenza di ieri potrebbe aver restituito ognuno al proprio ruolo: gli scienziati a fare rilevazioni e a informarne la pubblica autorità, le amministrazioni a decidere il da farsi, a comunicarlo alle popolazioni, assumendosene ogni responsabilità.

L’unico condannato: «Non contesto il verdetto ho rispetto delle vittime»

L’AQUILA Bernardo De Bernardinis, ex braccio destro di Guido Bertolaso quando il terremoto del 2009 ha raso al suolo L’Aquila, è l’unico degli imputati della commissione Grandi rischi che ha scelto di seguire direttamente tutte le udienze del processo, primo grado e Appello. Non ne ha saltata neanche una. L’ha fatto anche ieri, ovviamente, seduto nella quarta fila di quest’aula dalle poltrone blu, zeppa come non mai, costruita proprio dopo il terremoto. Immancabile il quaderno, fedele custode di appunti e pensieri. Alla fine, dopo la lettura del verdetto che gli riduce la pena a due anni rispetto ai sei del primo grado, lo chiude, si alza in piedi, smanetta con il cellulare e affida le sue prime emozioni a una frase, in tono flebile e capo chino: «Se fossi stato il padre di uno dei figli scomparsi avrei fatto la stessa cosa. Una vittima è sempre una vittima. Non ho mai contestato nulla». C’è spazio per un ultimo moto d’orgoglio, ripetuto quasi come un mantra in questi tre anni e mezzo di processi: «Ho la coscienza sempre sana, di fronte a Dio e agli uomini». D’altronde ha sempre sostenuto, in questi mille giorni, che «scelte diverse non si potevano fare», che avrebbe voluto «evitare questi morti, ma l’Italia farebbe bene a interrogarsi su quali sono i veri problemi di vulnerabilità e fragilità».
De Bernardinis, dunque, è l’unico che resta condannato, anche dopo questo verdetto che ribalta clamorosamente quello di primo grado. La pena scende a due anni, da sei, perché è stato assolto dall’accusa di omicidio colposo in riferimento a 16 vittime del sisma, mentre è stato ritenuto responsabile per altri 29 casi. Dice il procuratore generale Romolo Como che la sua pena ha un significato intrinseco: «Immaginavo un forte ridimensionamento dei ruoli e delle pene, ma non un'assoluzione così completa, scaricando tutto su De Bernardinis, cioè sulla Protezione Civile». Tesi che, però, la difesa dell’ex numero due del Dipartimento respinge fermamente. Anche perché l’avvocato Filippo Dinacci fa notare che tra i suoi assistiti c’è anche Mauro Dolce, attualmente ancora nei ranghi del Dipartimento: «No, non c’è alcuna responsabilità della Protezione civile. Sono soddisfatto perché la sentenza ha travolto l'impianto giuridico di primo grado e lo dimostra il fatto che Mauro Dolce è stato assolto con formula piena. Capisco le spinte emotive dei familiari, comprendo e sono partecipe del loro dolore. Ma questa sentenza servirà molto anche a capire come muoversi in futuro».
IN SILENZIO
De Bernardinis, oggi dipendente dell’Ispra, sceglie di chiudersi in un silenzio rigoroso. Telefono muto per i cronisti, acceso per familiari e amici più intimi. È comprensibile: simbolicamente, fin dal primo momento, è stato l’uomo «che invitava a bere un buon bicchiere di vino di Ofena» nella famigerata intervista post riunione della commissione. Dopo la condanna di primo grado disse: «Se ci saranno responsabilità alla fine del procedimento le accetterò completamente. Anche se da domani la mia vita cambierà completamente». Da ieri, in parte, il peso di questa vicenda gli si è alleggerito. Ma c’è da giurare che il dolore, quello no, difficilmente sarà lenito.
Stefano Dascoli

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