ROMA Il comunicato congiunto dopo quasi due ore di faccia a faccia tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi a palazzo Chigi afferma che l’impianto dell’accordo del Nazareno tra i due leader «è oggi più solido che mai, rafforzato dalla comune volontà di alzare al 40% la soglia dell’Italicum e dall’introduzione delle preferenze dopo il capolista bloccato nei 100 collegi». Questi i punti che consolidano un’intesa che ultimamente era sembrata scricchiolare, più che per la volontà dei due contraenti del ”patto“, per le tensioni nei rispettivi partiti. Esistono poi le differenze, che lo stesso comunicato elenca e che sono le stesse con cui il segretario-premier e l’ex Cavaliere sono andati all’incontro di ieri su posizioni diverse. Ma che vengono derubricate a questioni risolvibili nel corso del dibattito sulla legge elettorale in Parlamento: «Le differenze registrate sulla soglia minima di ingresso e sulla attribuzione del premio di maggioranza alla lista, anziché alla coalizione, non impediscono - dice la nota - di considerare positivo il lavoro fin qui svolto e di concludere i lavori in Aula al Senato dell’Italicum entro il mese di dicembre e della riforma costituzionale entro gennaio 2015».
ROAD MAP
Questa la road map e i confini temporali che dovrebbero dare sostanza al patto stipulato tra Renzi e Berlusconi a inizio anno, ai quali - nel comunicato - segue l’indicazione di alcuni obiettivi che si collocano in cima alle aspettative dei due leader. Primo, l’affermazione che «questa legislatura dovrà proseguire fino alla scadenza naturale del 2018», che è la massima aspirazione dell’ex Cavaliere, poi che - la stessa legislatura - «costituisce una grande opportunità per modernizzare l’Italia», obiettivo da sempre dichiarato dal Rottamatore, da raggiungere attraverso riforme istituzionali attese da decenni e da esibire nel contesto europeo. Compaiono, inoltre, nella nota alcuni punti fermi che dovrebbero caratterizzare la nuova legge elettorale anche in variazione della prima stesura dell’Italicum, come la soglia per il premio di maggioranza spostata dal 37 al 40%, l’introduzione delle preferenze accanto al capolista bloccato e la fissazione a 100 del numero dei collegi. Da cui deriva un’ampiezza notevole degli stessi, con l’elezione di 6-7 deputati in ciascuno di essi.
A conclusione, l’auspicio che, «anche su fronti opposti, maggioranza e opposizioni potranno lavorare insieme nell’interesse del Paese e nel rispetto condiviso di tutte le istituzioni». Concetto che, nella sostanza, si ricongiunge alla parte introduttiva del documento in cui si osserva che «l’Italia ha bisogno di un sistema istituzionale che garantisca governabilità, un vincitore certo la sera delle elezioni, il superamento del bicameralismo perfetto e il rispetto tra le forze politiche che si confrontino in modo civile, senza odio di parte. Queste sono le ragioni per cui - recita ancora la carta sottoscritta da Renzi e Berlusconi - Partito democratico e Forza Italia hanno condiviso un percorso difficile, ma significativo, a partire dal 18 gennaio scorso con l’incontro del Nazareno».
APPLAUSI
«Bene, molto bene, direi ottimo incontro Renzi-Berlusconi. Avantitutta!» è l’applauso con cui Angelino Alfano, via Twitter, accoglie il risultato del vertice tra i capi di Pd e FI. Sulla stessa linea il coordinatore del Ncd, Gaetano Quagliariello, che trascurando - al pari di Alfano - la riserva di Berlusconi sulla scelta di una bassa soglia di sbarramento per i piccoli partiti, indicata nella riunione di maggioranza di lunedì al 3%, inneggia così: «Tiene il patto del Nazareno. Tiene ancor più il patto di maggioranza».
Caos Pd, Renzi: non mi serve il vostro voto
Minoranza all’attacco. Vertice nel pomeriggio, poi l’affondo in direzione: non siamo qui per ratificare Nazareno e Jobs Act
ROMA Effettuato il tagliando al patto del Nazareno, Matteo Renzi porta all’incasso il sostegno del parlamentino pd (senza un voto, come aveva chiesto il presidente Orfini). Passaggio scontato ma necessario per l’accelerazione che il Rottamatore vuole dare ai tempi delle riforme. Chiuso un fronte, arginato il malumore del Cavaliere, se ne (ri)apre però un altro: la minoranza dem che punta i piedi e minaccia di rendere più accidentato il percorso del premier. Secondo le previsioni, Renzi avrebbe chiesto ieri alla Direzione un mandato preciso, politico e inequivocabile sull’Italicum. E a cascata quindi su tutto il resto, la riforma costituzionale all’esame della Camera, Jobs act e legge di stabilità. In particolare è su questi ultimi due provvedimenti che nel partito va aprendosi un solco difficile da colmare.
Esordendo ieri il premier ha affermato invece esattamente il contrario. E cioè di essersi mosso sin dall’inizio su mandato della Direzione per le modifiche alla legge elettorale, perché «la legge che sta emergendo garantisce a mio giudizio tutti gli obiettivi che ci eravamo dati». Le modifiche all’Italicum non hanno bisogno di timbri, «non lo facciamo per votare subito, il premio alla lista è per noi una straordinaria opportunità, lo è per qualsiasi partito che abbia una vocazione maggioritaria». E sul lavoro Renzi apre a modifiche, è pronto a fare piccole concessioni «purché però si rispettino i tempi».
MANI AVANTI
La riunione era stata preceduta da un clima polemico con spinte finanche secessioniste. Con le minoranze interne tornate sul piede di guerra, ma non ancora unite sulla tattica da seguire. Per tutto il giorno è stato dibattuto il seguente dilemma: disertiamo la direzione, ci andiamo solo per fare qualche intervento polemico, ci andiamo ma non partecipiamo al voto finale? L’unico che non ha dovuto dibattere, visto che aveva deciso senza problemi, è stato Pippo Civati: «Ci vado solo io, i miei no. E del resto, anche Renzi disertò alcune direzioni quando era in minoranza». Alla fine si è deciso per non esasperare oltremodo i toni: partecipazione alla direzione, chiedere di non votare nulla alla fine, e se proprio Renzi insiste per un voto, allora non parteciparvi. «Non ci può chiedere di ratificare il patto con Berlusconi», metteva le mani avanti D’Attorre, il bersaniano con l’elmetto sulla legge elettorale, che lanciava la sfida: «No a 100 capilista bloccati».
Sullo sfondo, il diverso atteggiamento tenuto dai due principali referenti delle minoranze, D’Alema e Bersani. Il primo ormai sulla linea della guerra aperta a Renzi, frontale e totale; il secondo non certo accomodante, ma che non istiga alla guerra frontale, almeno per adesso, piuttosto a quella di logoramento. Una sorta di marciare divisi per colpire uniti. «C’è lealtà alla ditta, ma anche dissenso», spiegava Bersani in Transatlantico, prima di andare al pre-vertice di minoranza nella sala Berlinguer del gruppo assieme a D’Alema, arrivato per primo, a Stumpo, Speranza, Zoggia, Cuperlo, e gli altri esponenti delle minoranze per decidere l’atteggiamento da tenere alla imminente direzione.
GUERRIGLIA
«Voglio passare alla storia come il maggiore convocatore di riunioni di direzione del Pd», chiosava Renzi con i suoi quasi a provocare la reazione delle minoranze. La guerriglia bersaniana si esplica su vari fronti: legge elettorale (con battaglia sulle preferenze e no ai capilista bloccati); Jobs act (articolo 18); lavoro; e ora finanche il «no euro», inaugurato da Fassina, ripreso da Cuperlo. Di qui l’atteggiamento polemico rispetto alla direzione. Con Matteo Orfini che sferzava: «Strano che a parlare di disertare la riunione sono proprio coloro i quali hanno più volte chiesto trasparenza e collegialità».