ROMA Alla fine fu accordo. Il Jobs act cambia. Vengono introdotti i licenziamenti disciplinari per i quali l’articolo 18 permane, e vengono stanziate più risorse per gli ammortizzatori sociali. Di fatto, sono i punti che la minoranza del Pd aveva richiesto a Matteo Renzi per poter votare il testo senza turarsi il naso o, peggio, senza dover rincorrere dissidenti vari e tiratori franchi, punti approvati in un documento finale della direzione dem. «Siamo soddisfatti, ora si può procedere», si leggeva sul viso a Cesare Damiano, il presidente della commissione Lavoro, nonché a Roberto Speranza, il capogruppo, che più di tutti si è dovuto prodigare per assicurare il voto compatto dei deputati al provvedimento, visto che i parlamentari dem attuali sono stati eletti nella gestione bersaniana.
Ma chiusa la falla a sinistra, ecco che si apre a destra. Insorge l’Ncd, alleato di governo, che per bocca dell’ex ministro Sacconi dice chiaro e tondo «non ci stiamo», attacca il Pd «che crede di risolvere i suoi problemi scaricandoli sul Parlamento», e chiede un vertice urgente di maggioranza, pena l’uscita del partito di Alfano dalla medesima.
IL GELO DI BOSCHI
Il vertice viene bocciato sul nascere dalla ministra Boschi («non ce n’è alcun bisogno»), e viene sostituito da un incontro a palazzo Chigi tra lo stesso Sacconi, Nunzia Di Girolamo capogruppo Ncd, e il sottosegretario Luca Lotti accompagnato da Taddei, responsabile pd per l’economia (il premier Renzi è in viaggio alla volta dell’Australia). Al termine, ribellione non rientrata: «Ci dobbiamo tornare a vedere». Ma il sottosegretario Graziano Del Rio, uscendo a sua volta da palazzo Chigi, spiegava tranquillo: «La forma decisa sul Jobs act mi pare molto buona, ci sono molti argomenti perché la maggioranza resti insieme».
E’ stato Matteo Renzi in persona a volere l’intesa con la minoranza e a lavorare per arrivarci. Subito dopo la direzione dell’altra sera, quella conclusasi senza votazioni (ora si capisce perché, era in gestazione l’accordone), il premier-segretario si è riunito con il vice Guerini, il presidente Orfini e i due capigruppo Zanda e Speranza. «L’importante è rispettare i tempi, senza stravolgere il provvedimento», il suo mandato. La minoranza dialogante (ormai la gran parte) non aspettava altro, la palla è passata subito ai referenti in Parlamento, altra riunione con i componenti dem della commissione Lavoro, e l’intesa definitiva è stata trovata nel primo pomeriggio. I tempi, dunque. Il Jobs act verrà modificato nel testo approvato al Senato, ma sarà poi assicurato il rispetto dei tempi per essere approvato entro l’anno, in modo da essere operativo dal 1° gennaio del 2015. «E’ un grandissimo passo avanti», ha benedetto Renzi da Bucarest, in una pausa del viaggio alla volta della terra dei canguri. Scompare anche l’ipotesi di ricorrere alla fiducia, a meno di incidenti di percorso allo stato non messi nel conto. «L’accordo è sicuro, soprattutto al Senato, blin-da-to», scandivano dalla presidenza del gruppo di Montecitorio. La grande intesa lascia fuori solo alcuni singoli del Pd, gli irriducibili, abbandonati anche dal resto della compagnia. Si chiamano Stefano Fassina e Pippo Civati. «Non voterò una delega in bianco. E’ una questione che riguarda i diritti dei lavoratori, non si possono dare deleghe in bianco al limite della costituzionalità», il no di Fassina. Punta i piedi anche Cuperlo, ma non viene indicato tra i possibili esponenti pronti all’abbandono.