ROMA «C’è l’accordo sul Jobs act». L’annuncio lo dà Cesare Damiano, e vale doppio: significa che il governo è a un passo dall’abolizione dell’articolo 18 senza rischiare la crisi, e significa che la minoranza pd è pronta a dare disco verde, con qualche eccezione. Disco rosso ha invece dato FI, che insieme alle altre opposizioni ha abbandonato i lavori della commissione subito dopo aver votato contro all’emendamento del governo: i forzisti e la destra protestano perché il 18 sarebbe stato snaturato, Sel e M5S perché invece sarebbe stato abolito. Sicché il governo adesso ha davanti un’autostrada per mettere la fiducia.
L’intesa conclude un braccio di ferro dentro il Pd che durava da tempo, con il capogruppo Speranza e Damiano a spingere per l’intesa. Alla fine il testo dovrebbe riuscire a essere licenziato dall’aula della Camera entro il 26, come vuole spera e chiede palazzo Chigi. Rientra in pieno nell’accordo Ncd, la maggioranza si è ritrovata abbastanza agevolmente, con Maurizio Sacconi alla fine soddisfatto pure lui perché «hanno vinto i riformisti, di destra e di sinistra». L’accordo prevede che il 18 rimane per i licenziamenti discriminatori e per alcune fattispecie di licenziamenti disciplinari che verranno specificati nella delega comunque solo per casi eccezionali, mentre per i licenziamenti economici ci sarà solo l’indennizzo. In serata arriva il commento di Matteo Renzi via mail: «Un provvedimento che non toglie diritti ma solo alibi ai sindacati, alle imprese, ai politici».
GLI 8 EMENDAMENTI
Le ultime ore prima dell’intesa sono state accompagnate da prese di posizione al limite del gioco delle parti. Con Ncd nella parte dei ”duri” che non cedono sul 18, e il Pd, non solo le minoranze, nella parte dei ”morbidi” che vogliono sì togliere l’articolo dallo statuto, ma senza spellarsi le mani. Ecco così che Matteo Orfini, il presidente del Pd, scrive un twitter tirando in ballo Sacconi, «aveva detto che o si votava il testo del Senato o niente, e invece si è cambiato»; e con l’ex ministro del Lavoro di rimando «Orfini rassegnati, tu sei il passato, io sto con Taddei a parlare di futuro». Il timore sacconiano era che il 18 uscito dalla porta rientrasse dalla finestra; ma il timore del leader Angelino Alfano era che a tirare troppo la corda, si finisse non per far rientrare il 18, quanto di creare ulteriori problemi a Ncd nella maggioranza.
Un’intesa che ha riacutizzato frizioni e conflitti dentro il Pd. E anche dentro la minoranza, ormai sull’orlo di una crisi di nervi da separazione, anche nei comportamenti. Mentre Speranza e Damiano annunciavano soddisfatti l’accordo, Civati, Fassina, D’Attorre e Cuperlo illustravano ai giornalisti otto emendamenti alla legge di stabilità. Insorgevano i renziani per bocca di Carbone della segreteria, che definiva «incredibile» la convocazione di una conferenza stampa «per illustrare emendamenti pensati e redatti senza tener conto della discussione nel gruppo». I quattro, come hanno fatto capire parlando con diversi colleghi, sono orientati a votare sì alla fiducia se verrà posta, ma no al provvedimento.