ROMA Sono tre i dati politici emersi dal via libera concesso ieri dalla Camera al Jobs act: non c’è stato voto di fiducia e il provvedimento è stato votato un giorno prima del previsto (ora spetta al Senato il ”sì” definitivo che è scontato); il Pd si è diviso ma la minoranza non si è mossa compattamente facendo registrare ulteriori spaccature; le opposizioni hanno protestato in modo forte e plateale e poi sono uscite dall’aula (insieme a parte della minoranza Pd) ma non ci sono stati episodi di intolleranza e malcostume. Un insieme di elementi che ha consentito al premier Matteo Renzi di lanciare un tweet di ringraziamento e di incitamento ad andare avanti sulla strada delle riforme.
L’esito del voto è stato il seguente: 316 sì; 6 no e 5 astenuti. Ai deputati della maggioranza che hanno votato a favore si sono uniti un esponente della Lega e uno di Fratelli d’Italia. Ma indubbiamente l’elemento più significativo del voto è stata la plateale frattura del Pd con 44 parlamentari Democrat che in un modo o in altro non hanno appoggiato il governo. Per la verità sette deputati, compreso l’ex premier Enrico Letta, erano assenti giustificati ma 33 sono usciti dall’aula con le opposizioni (e fra questi 29, fra i quali Fassina, Cuperlo e Boccia, hanno firmato un documento di dissenso dall’operazione Jobs act). Infine fra i civatiani due deputati, compreso Civati, hanno votato contro mentre altri due si sono astenuti.
DIVISIONI A CASCATA
A completare il frastagliato quadro delle posizioni della minoranza Pd va detto che l’ex segretario Pier Luigi Bersani ha dichiarato d’aver votato ”si” per disciplina. L’area bersaniana, del resto, può vantare il risultato d’aver modificato il Jobs act in più punti e non intende disconoscere il lavoro svolto.
«Tra il bicchiere mezzo pieno e quello mezzo vuoto - ha spiegato con calma l’ex segretario Dem - ciascuno sceglie con la sua sensibilità». Secondo Bersani, «con il Jobs act non si va al cuore del problema, che è la produttività del lavoro. E non mi chiamassero conservatore se no m'incazzo», ha aggiunto senza perdere, però, il suo aplomb.
Fino all’ultimo minuto il presidente del Pd, Matteo Orfini, ha provato a difendere l'unità del partito. «Voglio sperare - è stato il suo mantra per tutto il pomeriggio - che l’unità prevalga». Un appello non del tutto infecondo, visto che, come ha sottolineato Gianni Cuperlo, è stato un «grande senso di responsabilità» a spingere i 29 deputati che hanno firmato il documento di dissenso e i quattro che si sono uniti a loro uscendo dall’aula a non votare contro il provvedimento. «Per noi - ha aggiunto Stefano Fassina- il fatto che 29 parlamentari del Pd abbiano condiviso un giudizio negativo sul merito del Jobs act e non abbiano partecipato al voto finale è un dato politico rilevante».
LE TENSIONI
Il fatto che non si sia fatto ricorso alla fiducia non indica che tutto sia filato liscio come l’olio. La tensione è stata altissima anche in Aula: durante le dichiarazioni di voto, ad esempio, alcuni spettatori con addosso magliette rosse della Fiom sotto la giacca si sono avvicinati al parapetto e sono stati allontanati dai commessi. Dure protesta anche dei deputati 5Stelle che hanno issato cartelli con la scritta «Licenziact», e dei deputati di Sel, che hanno inneggiato allo Statuto dei lavoratori. Per Forza Italia infine il governo: «E’ già moriondo».