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Pescara, 24/11/2024
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11/12/2014
Il Messaggero
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Riforme, governo sotto. Ira di Renzi. Camera, in commissione ok a due emendamenti della sinistra che eliminano i senatori a vita. Il leader: basta trattare con loro. Il premier: prove di scissione Pd basta agguati, così dritti al voto |
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ROMA Hanno trovato un tema popolare e ci si sono buttati a pesce. No ai senatori a vita. Né cinque, né sette, né altro. Niente. «A vita non c’è più neanche il Papa, figuriamoci i senatori», gigioneggia un ex ministro. Sel presenta un emendamento ad hoc in commissione dove si sta discutendo la riforma del Senato, e a votarlo sono in tanti, di più della maggioranza. Risultato: finisce 22 a 20, il governo va sotto, battuto. Da chi? Oltre che dalle opposizioni, com’è naturale, da quegli stessi che ne costituiscono (o dovrebbero) l’ossatura di maggioranza. Ben 10 deputati del Pd votano a favore dell’emendamento di Sel, e quindi contro maggioranza e governo: Cuperlo, Pollastrini, Lauricella, Lattuca, Bindi, Agostini, D’Attorre, Meloni, Fabbri, Naccarato. Tutti delle minoranze dem, nonché con addentellati di Meloni, lettiano, e finanche di un giovane turco, Naccarato, in dissenso due volte, dalla maggioranza e dalla sua componente, che ha in Orfini il presidente che non rema certo contro il premier. Ai dieci picconatori vanno aggiunti il bersaniano Giorgis, che si è astenuto, e il lettiano Sanna che al momento del voto si è assentato (pare per urgenze fisiologiche). Ai 12 del Pd vanno aggiunti i dissidenti di Forza Italia come Bianconi, «e non chiamatemi frondista, il mio voto rappresenta quello di 17 deputati forzisti», tiene a precisare. Se così fosse veramente, il famoso patto del Nazareno sarebbe già bello e sepolto. Ma così, almeno per il momento, non appare. LE REAZIONI
«Quello che conta è il voto dell’aula, e lì si esprimerà il vero Pd», scandisce subito la ministra Maria Elena Boschi, presente in commissione al momento del blitz delle minoranze. «Solo un incidente tecnico», si affretta a frenare D’Attorre, ma non ci crede troppo neanche lui. E infatti viene subito ripreso dal sottosegretario Pizzetti: «Gli emendamenti non sono mai tecnici, in questo modo il testo cambia e si rischia di dover ricorrere a ulteriori letture allungando i tempi». Nel pomeriggio, poi, alcuni autori del blitz si sono ritrovati a brindare alla buvette, Bindi, D’Attorre, Lauricella, Meloni, e per l’occasione si è aggiunto Civati. «Non si vota contro il proprio governo», la stilettata di Emanuele Fiano, relatore sul ddl nonché responsabile riforme del Pd. Il quale si è subito sentito con il premier, che non l’ha certo presa bene. «D’ora in poi non si concede più nulla, finora abbiamo mostrato un atteggiamento dialogante, ma ora basta, non si accettano più loro emendamenti, li respingeremo tutti», il lascito-indicazione politica concordati. Qualche renziano ultrà come Giachetti si spinge più in là, fino a invocare le urne via twitter: «I frammenti di minoranze finalmente si uniscono. Obiettivo: impallinare il governo. Con amici così, a che servono i nemici? Elezioni subito». Già, le urne. Anche in questa direzione, il premier segretario ha cercato di stendere una rete protettiva, in modo da non restare in balìa dei colpi di coda delle minoranze coalizzate. Come? Mentre alla Camera maggioranza e governo andavano sotto, al Senato dove si discute di legge elettorale si è messa a punto la cosiddetta clausola di salvaguardia congegnata così: la nuova legge elettorale, l’Italicum, entra in vigore dal primo gennaio del 2016, ma se prima si verificassero battute d’arresto, bocciature, sabotaggi vari tali da inficiare le riforme, allora si potrebbe ugualmente andare al voto con il Mattarellum. Sulla vecchia legge che verrebbe ripristinata, Renzi ha già il sì di Grillo («ci piacerebbe»), della Lega e di Sel, da sempre fautori di quel sistema. E Berlusconi? Il premier è convinto che l’ex Cav alla fine cederà e manterrà i patti. Il premier comunque ha spiegato ai suoi che gli chiedevano lumi sul Mattarellum che obbliga a coalizioni: «Tranquilli, andremmo al voto da soli, e questa volta sul serio».
Il premier: prove di scissione Pd basta agguati, così dritti al voto
ROMA «Avevano preso un impegno e non lo hanno mantenuto. Andranno sotto in aula alla Camera, non vale la pena di arrabbiarsi. Andiamo avanti». Matteo Renzi tiene a freno i suoi, ma è furibondo per quel gruppetto di deputati del Pd che in commissione ha mandato sotto il governo. Non è l’emendamento in sé a preoccuparlo, quanto il segnale politico che la minoranza della minoranza del Pd ha voluto dare. «I soliti», come li definisce il premier, hanno il nome di D’Attorre, Agostini, Lattuca, Meloni, Pollastrini, Bindi Cuperlo e Lauricella. L’irritazione è forte specie per gli ultimi tre, componenti dell’ufficio di presidenza «Ma come, stiamo prendendo fango per loro (Roma ndr) e questo è il ringraziamento? Uno sgambetto? Altro che ”ditta“, accordo violato con agguato pensato a tavolino che mette a rischio tutto». Tra i renziani, riuniti in serata a palazzo Chigi, è forte la tentazione di chiuderla qui votando il Mattarellum: «Facciamo le liste e poi vediamo che succede». TRADITORI
Renzi getta acqua sul fuoco anche se non si trattiene: «Pensano di intimidirci, ma non mi conoscono si divertono a mandarci sotto per far vedere che ci sono, che esistono, anche a costo di votare con Grillo e Salvini». Nel giorno dell’attacco del leader del M5S a Giorgio Napolitano, l’associazione tra Cuperlo e company con Grillo diventa ancor più indigesta, anche perché il premier ha chiesto ai suoi parlamentari di difendere a spada tratta il capo dello Stato. Nello scontro tutto interno al Pd il presidente del Consiglio non si tira indietro e sembra quasi voler provocare il gruppetto ad essere coerente anche in aula. Ciò che potrebbe succedere dopo lo racconta il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti che evoca le urne subito. Un’eventualità che atterrisce prima di tutto proprio i dissidenti dalle plurime legislature (Bindi e Pollastrini in testa), pronti anche a costituire un altro partito pur di non rimanere fuori. «L’incidente di percorso», come viene derubricato a palazzo Chigi, è però destinato ad avere conseguenze immediate. Un assaggio potrebbe esserci domenica all’assemblea del Pd che si terrà a Roma e nella quale Renzi potrebbe lanciare una sorta di ultimo avvertimento ai dissidenti, i primi a temere il voto anticipato e i primi, per Renzi, «a provocarlo». Unire i voti del Pd a quelli di Sel e ai dissidenti di Forza Italia, è però un messaggio che, seppur non destinato a ripetersi, punta a mettere in crisi il patto del Nazareno che invece - secondo i contraenti - dovrebbe sprigionare i suoi effetti fino all’elezione del capo dello Stato. OCCHIO
Alla tentazione dei renziani di rovesciare il tavolo e andare a votare, il presidente del Consiglio replica invitandoli alla pazienza. «Calma, vedremo poi in aula chi ha i numeri. Il loro obiettivo è solo quello di far deragliare le riforme, ma se falliamo noi arriva la troika. Visto quello che dice Juncker?». L’avvertimento è pesante, frutto di una giornata spesa dal presidente del Consiglio sul fronte economico con una fitta serie di riunioni (legge di stabilità, Ilva, Eni, Saipem) e di incontri (Fmi-Lagarde e il premier serbo Vucic). Con un occhio ai mercati e a ciò che succede in Grecia e a Bruxelles. Il segretario del Pd avverte la tentazione della scissione e il rischio che l’assemblea di domenica si tramuti in una resa dei conti. «Scherzano con il fuoco», sostiene Deborah Serracchiani, vicesegretario del Pd e da tempo impaziente nel voler regolare i conti una volta per tutte «con chi ha perso le elezioni e il congresso». In questo crescendo di tensione, si avverte il peso che palazzo Chigi sopporta per le vicende romane che stanno zavorrando la strategia renziana tesa ad accreditare in Europa la volontà di cambiare del nostro Paese e che, invece, si trova ancora una volta a fare i conti con le proprie contraddizioni.
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