ROMA I toni, anzi i decibel - come li chiama Matteo Renzi - sono stati alti. E anche se l’Assemblea del Pd non ha registrato lo strappo tra il segretario e i dissidenti, scintille ce ne sono state parecchie. «Non staremo fermi per i diktat della minoranza», esordisce il premier. La risposta, andando dritto al sodo, la da Stefano Fassina: «Se vuoi andare ad elezioni dillo, smettila di scaricare la responsabilità sulle spalle degli altri». E alla fine arriva la contro replica del premier, che nel frattempo ha caricato il colpo: «Non voglio andare al voto. Non succederà, a meno che il Parlamento non mi mandi a casa. Ho intenzione di guidare il partito fino al 2017 e il governo fino al 2018». Dunque «mettetevi il cuore in pace». Tra i dem non c’è una resa dei conti, soprattutto perché non viene votato un documento. Quindi, niente conta finale. La minoranza arriva al grande appuntamento in ordine sparso e con posizioni diverse. Intanto c’è chi non si presenta. Come Massimo D’Alema («non partecipo, non accetto le minacce o le sanzioni») e Pier Luigi Bersani, quest’ultimo bloccato a casa per colpa di un mal di schiena. Pippo Civati c’è ma non parla dal palco e va via dopo poche ore. Presente invece Alfredo D’Attorre, che interviene tra i primi. Parla in modo conciliante, invoca il dialogo per migliorare le riforme e non per bloccarle. Ma poi, al termine della riunione, si dice deluso dalla replica del segretario: «Mi sarei aspettato conclusioni più volte alla ricerca di una sintesi mentre talvolta Renzi si fa prendere la mano e gioca al rilancio. Mi sarei aspettato un riconoscimento esplicito della serietà del confronto svolto sulle riforme». Poi tocca a Gianni Cuperlo, che attacca Renzi prima per non aver menzionato la protesta dei sindacati di venerdì scorso e poi sulle riforme: «Nessuno cerca il fallimento, non si tratta di mugugnare», parola quest’ultima usata dal premier, «ma di migliorarle». Per il segretario però «chi sta in Parlamento non deve lanciare solo segnali, altrimenti sarebbe un semaforo, ma deve provare a cambiare in meglio il Paese». E anche a chi evoca con una certa vena nostalgica l’esperienza dell’Ulivo, il premier ricorda che quella stagione di riforme annunciate per vent’anni «ha fallito per le nostre divisioni e i nostri errori». A questo punto Fassina, protagonista della fronda anti-Matteo, alza la voce: «Non ti permetto di fare una nuova caricatura» della minoranza dem. Quando tocca di nuovo a Renzi prendere la parola, i toni sono meno soft rispetto alla relazione iniziale, anzi: «Non sono affezionato a un principio di obbedienza, in un partito si sta insieme sulla base del principio di lealtà. Si può discutere di tutto ma se ci sono elementi di coscienza, questi non devono essere organizzati per correnti o per mandare sotto il governo utilizzando una questione costituzionale». E poi, rivolgendosi direttamente a Fassina: «Qui non c’è alcuna caricatura. Io vengo definito “Thatcher de noantri” e il jobs act “fascista”, il programma economico da Troika». Ecco quindi che il premier dice di voler tirare dritto, perché «non ha senso tornare a votare a ogni intoppo. Serve il coraggio e la voglia di andare avanti sul serio». Immancabile dal palco un passaggio sull’inchiesta Mafia Capitale con tanto di stoccata contro le toghe: «Sono schifato - dice Renzi - da quello che sta emergendo. I corrotti e i disonesti, anche quelli dentro il Pd, non possono camminare con noi. Chiedo di arrivare velocemente ai processi e ai magistrati di parlare un po’ di più con le sentenze che con le interviste».
Turchi, Sinistra, ex dc: ecco la galassia dem. Renziani e bersaniani, cuperliani e civatiani ma anche lettiani: componenti che parlano lingue diverse
ROMA C’è Renzi. Cioè la stragrande maggioranza del partito, con una cifra intorno al 70%. E poi ci sono gli altri: sei-sette correnti (dipende da come si considerano le sub-componenti). Alcune più grandi, come quella bersaniana, alcune piccole o piccolissime. Questa la galassia variegata del Pd: Renziani: i fedelissimi del premier-segretario che controllano il 67% della direzione e una quota perfino maggiore dell’assemblea del partito. Ne fanno parte Maria Elena Boschi, Lorenzo Guerini, Debora Serracchiani e Luca Lotti, tra gli altri. - Area Dem: È la componente guidata da Dario Franceschini, che è entrata in maggioranza sostenendo Renzi al congresso e poi la sua decisione di sostituire Letta. Tra i suoi esponenti anche il capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda. Giovani Turchi: è l’area che raccoglie un gruppo di quarantenni di provenienza Ds, neo renziani. Il leader è Matteo Orfini, presidente del partito. «Giovane turco» è anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Area Riformista: è la componente bersaniana del partito, guidata dal capogruppo alla Camera Roberto Speranza. Si caratterizza per esprimere al momento l’anima più moderata della minoranza, che punta sul dialogo per ottenere modifiche ai provvedimenti in Parlamento ma non vuole rompere e tantomeno sentire passare di scissione. Tra gli esponenti, Maurizio Martina, Cesare Damiano, Guglielmo Epifani e anche esponenti della segreteria come Enzo Amendola e Micaela Campana. Alcuni parlamentari di Area riformista, come Alfredo D’Attorre e Davide Zoggia, hanno scelto però una linea più dura. Sinistra Dem: è l’area che fa capo a Gianni Cuperlo. Ne fa parte chi dopo il congresso ha deciso di non confluire in area riformista. Lettiani e bindiani: le componenti che fanno capo a Enrico Letta e Rosy Bindi si sono formalmente sciolte. Esponenti di spicco delle due aree, come la stessa Bindi e Francesco Boccia, che al congresso aveva sostenuto Renzi, fanno parte di quel gruppo trasversale alle minoranze che ha assunto posizioni molto critiche in Parlamento, dal Jobs act alle riforme. Civatiani: rappresentano l’ala più ’estremà tra le correnti interne. Il suo leader, Pippo Civati, ha più volte ventilato scissioni e un nuovo partito a sinistra. Del suo gruppo fanno parte i senatori Corradino Mineo e Felice Casson.