Articolo 18, ammortizzatori sociali, riforma dell'Aspi e salva-Ilva sul tavolo dei ministri che si riuniscono alla vigilia di Natale. Sullo sfondo, la battaglia tra Ncd e minoranza Pd
ROMA - In arrivo stamani le novità sui licenziamenti e gli indennizzi economici, che sostituiranno - nella gran parte dei casi di risoluzione illegittima del rapporto di lavoro - il reintegro dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Novità in vista anche sugli ammortizzatori sociali. Oggi, infatti, i primi decreti attuativi del Jobs Act sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e sulla riforma dell'Aspi approdano sul tavolo del Consiglio dei ministri (convocato in un primo tempo alle 10 ma poi fatto slittare alle 12, a dimostrazione forse di come trovare una sintesi per la scrittura del decreto non sia affatto semplice).
"Con il Jobs Act sarà più facile assumere, non licenziare", è tornato ad evidenziare ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, alla vigilia del Cdm, ribadendo anche che le nuove regole si applicano soltanto ai nuovi assunti ("quelli che hanno già un contratto mantengono lo Statuto del passato"), per loro, per i quali oggi "avere un contratto a tempo indeterminato sembra una chimera, il sistema sarà più semplice e flessibile".
Sempre ieri Renzi ha incontrato al Quirinale il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al quale ha illustrato anche le misure su lavoro. Perché il "Cdm di Natale" sarà un Consiglio dei ministri importante: non c'è solo il Jobs Act, ma anche decreto salva-Ilva (che arriva subito dopo l'accordo su Termini Imerese e mentre si cerca un'intesa su Meridiana). Ci sono poi le norme che attuano un pezzo importante della riforma del fisco sul fronte delle imprese, alcune nomine di rilievo e anche il decreto milleproroghe.
Sul Jobs Act, e in particolare sull'entità degli indennizzi, compresa la possibilità che per il datore di lavoro ci sia l'opzione di superare il reintegro nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento disciplinare ingiustificato e di scegliere comunque di pagare l'indennizzo ma più alto (il cosiddetto opting out), si lavora fino all'ultimo. "Non voglio entrare nei dettagli tecnici. Stanno ancora discutendo nei tavoli di lavoro al ministero e a palazzo Chigi", aveva infatti affermato anche il premier ieri in mattinata.
Il confronto era poi andato avanti per tutta la giornata. Ma il presidente della commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi (Ncd), in serata era tornato ad insistere sul superamento netto dell'articolo 18 e sulla tenuta del governo: "Domani d-day della politica italiana. O via articolo 18 o via governo per crollo credibilità", aveva scritto su Twitter.
Alle parole di Sacconi aveva subito replicato Pippo Civati, deputato della minoranza Pd: "Secondo me, daranno retta a Sacconi, come al solito", lasciando intendere che a prendere forma sarà un decreto più vicino ai desiderata di Angelino Alfano, leader del Nuovo centrodestra e titolare del Viminale. A rincarare la dose, ieri, anche Stefano Fassina, parlamentare della sinistra dem, che all'Huffington Post ha bollato il decreto come "scritto con la mano destra". Ma dal Partito democratico a intervenire oggi è un altro deputato: Giampaolo Galli, economista ed ex dg di Confindustria, sempre via Twitter invita a prendere sul serio le parole di Sacconi.
Stando alle ipotesi prese in esame, si andrebbe verso un indennizzo economico che va da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mesi di retribuzione, nelle aziende sopra i 15 dipendenti (oggi è 12-24 mesi). Resta infatti la distinzione con le piccole imprese sotto i 15 dipendenti (escluse dall'articolo 18) per le quali continuerebbe a valere l'indennizzo attuale variabile tra i 2,5 e i 6 mesi di retribuzione. Possibile un'ulteriore differenziazione con le aziende sopra i 200 dipendenti. Mentre in caso di opting out, ci sarebbe un super-indennizzo. E nei casi di conciliazione, invece, l'indennizzo sarebbe più basso ma esentasse. "Bisogna evitare errori che rischiano di danneggiare milioni di lavoratori", afferma il leader della Uil, Carmelo Barbagallo, sostenendo che "con le nuove regole, più che un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti rischiamo di essere in presenza di un contratto a tempo determinato fortemente incentivato".