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Data: 27/12/2014
Testata giornalistica: Il Centro
L’anno di Renzi, il sogno italiano del rottamatore. Il partito, il governo, il 41% alle Europee. La scommessa col Paese, il duello con la Ue

ROMA Un anno fa era lo scapestrato, l’anticonformista, l’eccentrico. Quello che si presentava al Quirinale a piedi per gli auguri del presidente: non era il primo né l’ultimo, ma faceva notizia. Perché al presepe stava bussando un personaggio nuovo, che avrebbe mandato i giornali in overdose di aneddoti e di battute, riempiendo il vuoto lasciato da un Berlusconi a fine carriera. Quel giorno, al Quirinale, Matteo Renzi era l’unico vestito di chiaro. Non si fa, gli dissero. Non lo sapevo, rispose. Ma in foto risaltava, unico in un mare scuro come le prospettive degli italiani. Nell’aria, in quei giorni, c’era voglia di spallata, quella stessa spallata che dieci mesi prima un elettore su quattro aveva affidato a Grillo. Fu così che terminò il 2013, con l’idea che l’arte del possibile stesse mostrando le corde: serviva un asteroide per resettare tutto, e l’asteroide era proprio lì, in nona fila, nel salone delle Feste. Finito il discorso di Napolitano, Renzi scappò via prima del buffet. Non si fa nemmeno questo, gli dissero di nuovo. Sono allergico, rispose: un’allergia - avrebbe spiegato mesi dopo - ai professionisti delle tartine, quelli che pensano di cambiare l’Italia addentando un tramezzino al salmone. Lui no, «a Firenze al massimo un brindisi». E una fetta di pizza all’ora di pranzo, tra un dossier e l’altro: perché i sindaci fanno, raccontava la narrazione dell’epoca, prima dei tagli agli enti locali, mentre i politici sanno solo parlare. Ma senza politica, Renzi lo sapeva bene, al massimo si finisce a scrivere editoriali. Si prese dunque il partito e da quel momento divenne il presidente del Consiglio in pectore: «Enrico, stai sereno», twittava a Letta, e pochi giorni dopo era di nuovo al Quirinale, stavolta in abito scuro, per ricevere da Napolitano l’incarico di formare un governo. L’emozione al Senato, nel giorno della fiducia, passò con una battuta sulla sua prossima abolizione. Perché il battutista si è confermato di alto livello, come la sua capacità di orientare la comunicazione: il tweet, il gioco di parole, il gesto, l’abilità retorica di spostare l’attenzione contro il nemico immaginario sono doti oggettive, anche se a volte un po’ grezze. Se non sei d’accordo con me, ha spiegato agli italiani, è un problema tuo: sei un gufo o un rosicone, un piagnone o uno sciacallo, e comunque sei ostile al cambiamento. Ma poi capita pure, come nel caso del carretto di gelati portato a Palazzo Chigi per rispondere alla vignetta dell’Economist, che la frizione scappi: succede soprattutto quando Renzi è toccato nell’ego, il suo tallone d’Achille. È sfacciato, questo sì. Altri, con un livello simile di inglese, non avrebbero mai preso la parola in pubblico; lui, tra uno shish e l’altro, ha deliziato platee negli appuntamenti internazionali, buttandola sulla simpatia italica («il mio non è English, ma Globish») e sull’immagine di uno che, comunque, ci prova. E che sostiene con convinzione le proprie tesi, anche quando - a seconda delle circostanze - subiscono qualche evoluzione: garantista con i sottosegretari del Pd indagati, giustizialista quando l’inchiesta è Mafia Capitale e riguarda il Comune di Roma. Ma è una sfacciataggine che agli italiani piace, se il 41% alle Europee significa qualcosa, e che ricorda da vicino quella di Berlusconi. I due hanno in comune diverse cose: oltre alla comunicazione e al costante bisogno di rilanciare, c’è l’allergia alla palude di certi corpi intermedi, alle sovrastrutture, alla stessa definizione di politica come regno del compromesso. Rispetto al primo Silvio, però, il Renzi del 2014 è più smaliziato, e cerca innanzitutto chi non gli faccia ombra: così politico - grazie ai dieci anni di governo tra Provincia e Comune - da non fidarsi mai, fino in fondo, della politica stessa.

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