I tempi della protesta non hanno aiutato, ma ogni romano sa che la vicenda dei vigili assenteisti non è una storia di fannulloni. In nessun’altra città d’Italia si svolgono Giubilei, funerali di Papi, manifestazioni di piazza con milioni di partecipanti, e se Roma ogni volta sopravvive è anche grazie all’abnegazione di molte donne e uomini in divisa: non conoscono domeniche e feste comandate, dunque per loro il Capodanno lavorativo non sarebbe stato una novità. Ma hanno scelto forse il giorno sbagliato per protestare, e certamente la modalità meno comprensibile al cittadino comune: fingere un’epidemia di massa non è mai simpatico, soprattutto in un momento come questo - col jobs act in discussione - in cui al dipendente pubblico vengono contestati privilegi. È una storia complessa e stratificata, quella dei vigili di Roma. Pagati poco, arrotondano da anni col criterio del volemose bene: qualche decina d’euro al mese per l’indennità di vestiario, altrettanto per i cosiddetti servizi esterni e così via. Tutti stratagemmi esterni alla retribuzione, diffusi nell’intera categoria dei dipendenti comunali, che non costituiscono base pensionabile, ma che almeno migliorano un po’ la busta paga. Il volemose bene, però, non può essere un criterio di gestione della cosa pubblica: lo ha anche messo nero su bianco il ministero dell’Economia, nella relazione sui conti commissionatagli dal Campidoglio e consegnata a gennaio scorso. E così, il marziano Marino ha cercato di fare ordine usando criteri più oggettivi e meritocratici: obiettivo complicato - il vicesindaco Nieri, che pure è di Sel, non è riuscito a chiudere la trattativa con i sindacati - e di fatto raggiunto solo con uno strappo, quando il Comune ha deciso unilateralmente che la riforma sarebbe partita. Ecco allora l’improvvisa moria dei pizzardoni a Capodanno, che in un certo senso ha scavalcato i sindacati stessi: più che sindacale, infatti, la protesta è politica, perché è politico il nodo della questione; non è tanto dello stipendio dei vigili che si tratta, né dei loro turni di lavoro, quanto di un vero scontro tra poteri. Gli ultimi guai della Polizia municipale di Roma hanno origine in uno scandalo di tre anni fa, verso la fine del mandato di Alemanno. Un noto imprenditore denuncia alcuni vigili per concussione: quattro di loro vengono rinviati a giudizio e il comandante del Corpo, Giuliani, viene rimosso. Marino entra in carica e si scontra subito con il successore, Buttarelli: il sindaco vorrebbe più controlli sull’abusivismo, il comandante gli risponde che con l’organico che ha non può farne e si dimette. Arriva al suo posto la vice, Donatella Scafati, ma è solo un interregno, perché Marino è ormai proiettato su una soluzione esterna: indice un avviso e sceglie Liporace, che però si scopre privo dei requisiti e non prende nemmeno servizio. Si chiude il tutto con la nomina del poliziotto Clemente, attualmente in carica: è il quinto nome in tre anni, una sorta di commissariamento continuo per un organismo storicamente abituato - forse anche un po’ troppo - all’autogoverno. C’è poi una questione, poco nota ai più, che insieme alla storia del contratto fa traboccare un vaso ormai colmo. È quella della riorganizzazione del Corpo, oggettivamente necessaria per evitare tentazioni facili: d’ora in poi gli incarichi dirigenziali ruoteranno, dice il nuovo comandante, che fa saltare anche la vecchia divisione in Corpi municipali che, nel tempo, aveva consolidato posizioni di potere. I vigili protestano, il sindaco prende le difese di Clemente e le nuove regole sono ormai a un passo dall’essere applicate. Oggi il governo attacca, dal premier ai ministri interessati, e Brunetta si frega le mani: la vicenda romana diventa il paradigma dei dipendenti pubblici fannulloni che l’ex capo della Funzione pubblica aveva additato a facile bersaglio. Ma se la storia di Roma dice qualcosa all’Italia, e se una critica bisogna muovere davvero all’intero comparto della pubblica amministrazione, non è certo per la scarsa voglia di lavorare. Semmai, per l’incrostazione di certi meccanismi e per la forte resistenza al cambiamento, con la scusa che si è sempre fatto così.