È come se fosse, per lui, il giorno della liberazione. Sennò, a proposito della mattinata di oggi, in cui Giorgio Napolitano lascerà il palazzo del Quirinale dopo quasi nove anni, e non sarà più presidente in carica, egli non avrebbe utilizzato l’espressione «prigione». Ma rivolgendosi a una piccola studentessa, sulla piazza del Colle, durante la festa della polizia, una metafora così ci può stare. La bimba gli chiede se è felice di fare rientro nella sua abitazione privata, che poi è a due passi dalla sede presidenziale, e Napolitano le risponde con un umanissimo sorriso da nonno: «Certo che sono contento di tornare a casa. Qui si sta bene, è tutto molto bello, ma insomma si sta un po’ chiusi, un po’ come in prigione. E si esce poco».
ARIA
All’idea di uscire di più, Napolitano si sta così piacevolmente abituando che sembra già aver cambiato passo e ritmo nella camminata. Appare più leggero nei suoi movimenti. Gli occhi gli brillano come se il sole di una bella giornata romana adesso stia diventando, sul suo volto voglioso di riconquistare l’aria, più luminoso che mai. Il format del pensionato non gli si addice - anzi sarà presentissimo nella politica attiva già per le votazioni del successore: lui è un grande elettore, al contrario di Renzi e di Berlusconi che saranno pure i king maker ma non stanno in Parlamento - ma «farò tante passeggiate» è il messaggio che in queste ore si sente di esprimere. E capiterà magari di incontrarlo, come accadeva un tempo, prima che fosse eletto sul Colle, mentre si aggira lungo i Fori Imperiali ammirandone la grande bellezza. O magari, chissà, si potrebbe ripetere una scena come quella che capitò di vedere a un avventore del bar di via dei Serpenti, a pochi passi da casa di Giorgio e di Clio che è in Vicolo dei Serpenti, poche settimane prima che Napolitano diventasse presidente per la prima volta. Entra nel locale l’anziano leader della sinistra, con la semplicità che gli è consueta e gli deriva dall’autorevolezza conquistata in oltre mezzo secolo di attività politica, e chiede al barista: «Per favore, vorrei una prussiana». Risposta: «Una che?». «Una prussiana». Il barista fa la faccia a punto interrogativo. E lui: «Ah, volevo dire un ventaglio. A Roma lo chiamate così. A Napoli invece quella pasterella si chiama prussiana». E quando in queste passeggiate, al rione Monti, Napolitano incontrava un altro famoso abitante del quartiere, Mario Monicelli, genio anarchico e dissacrante, in tutto diversissimo da lord George?
Adesso, nelle ultime ore di questi nove anni, qualche telefonata agli amici della giovinezza. Come Raffaele ”Duddù” La Capria, per ricordare insieme a lui l’ultima volta - il 15 novembre scorso a casa del regista che faceva il compleanno - che entrambi hanno visto il comune sodale dei tempi del liceo, Francesco Rosi, amatissimo e appena scomparso. Ma soprattutto, ieri, dopo il saluto ai corazzieri, quello ai dipendenti della Presidenza della Repubblica. Una piccola folla. Nessun brindisi. Nel Salone delle Feste. Napolitano si commuove verso la fine del suo discorso. Che non ha nulla di retorico. «Sono contento di questi nove anni», dice alle persone che hanno lavorato con lui. E aggiunge: «Vorrei che il Quirinale restasse un punto di eccellenza della Pubblica Amministrazione».
Lo ascoltano, con una punta di orgoglio. Napolitano, salutandoli, vuole farli sentire una squadra che non scioglie le righe. Una squadra che in buona parte andrà avanti nel proprio lavoro, e nessuno di loro - neppure chi ha maggiore dimestichezza con il presidente - gli chiederebbe mai che tipo di figura immagina volentieri come successore ma tanto lo sanno tutti: una personalità autorevole e forte, capace di spingere l’Italia a non chiudersi in se stessa e a saper guardare il mondo perchè rapporti internazionali e politica interna, nella concezione politica di Napolitano, sono una cosa sola. Ora parla così, con tono nient’affatto crepuscolare, con nessuna posa da sovrano che abdica, con l’aderenza alla realtà che è stato un suo segno distintivo insieme al fastidio vibrante nei confronti dei predicatori di sfiducia e di chi alimenta «un clima sociale troppo impregnato di negatività»: «Il mio augurio al Paese è che sia unito e sereno. Anche perchè viviamo in un mondo molto difficile. Abbiamo visto nei giorni scorsi che cosa è accaduto in un Paese vicino e amico come la Francia». E ancora: «Siamo molto incoraggiati dalla straordinaria manifestazione di Parigi. Però, insomma, sempre stando attenti a stare in guardia senza fare allarmismo. Dobbiamo essere molto consapevoli, pur nella libertà di discussione politica e di dialettica parlamentare, della necessità di un Paese che sappia ritrovare, di fronte alle questioni decisive e nei momenti più drammatici, la sua fondamentale unità».
Ecco, Napolitano resta Napolitano fino alla fine. Ma è come se un surplus di calore - di misurato calore, naturalmente - lo stia particolarmente attraversando in questo passaggio esistenziale. Verrebbe quasi, ma solo quasi e sapendo di esagerare, da chiamarlo Giorgio il Caldo: e sarebbe un nuovo soprannome tardivo ma affettuoso da aggiungere a quello che gli affibbiarono ai tempi in cui era ragazzo nella sua Napoli. Lo chiamavano Giorgio ’o sicco (il magro) per distinguerlo dal suo maestro politico Amendola, denominato Giorgio ’o chiatto (in quanto assai più robusto del suo allievo).
Vecchie storie, che però ritornano perchè ogni nuovo passaggio di vita - come questo che sta compiendo Napolitano - contiene anche un ripensamento dei capitoli precedenti, anche o soprattutto i più lontani. Qui e ora ci sono gli scatoloni con i libri già traslocati dall’appartamento del Colle a quello privato. E anche i recipienti con altri volumi e altre carte sono arrivati da tempo nello studio da presidente emerito che Napolitano ha a disposizione a Palazzo Giustiniani (così come ce l’ha Carlo Azeglio Ciampi). E in quella sede lavoreranno nel suo staff la segretaria Viviane Schmit, Giancarlo Bartoloni e Giovanni Matteoli. Mentre nello stesso edificio, per il periodo della reggenza affidato a Pietro Grasso, il presidente del Senato sarà affiancato da quello che è stato in questi anni uno degli uomini più vicini al Capo dello Stato: il segretario generale del Quirinale, Donato Marra, che a sua volta ieri ha salutato il personale della presidenza. C’è chi subito ha fatto il paragone. Come il Papa emerito Benedetto XVI guarda le meraviglie del Vaticano dal suo appartamento al primo piano del monastero Mater Ecclesiae, che sta dietro alla basilica di San Pietro, così Napolitano potrà fare da Palazzo Giustiniani, e ancora di più dalla sua stanza da letto nel rione Monti, nei confronti dell’edificio del potere in cui ieri notte ha trascorso l’ultima notte. Ma in entrambi i casi, di Ratzinger e di Napolitano, non c’è ombra di nostalgia o di rimpianto nell’abbandono dello scettro. C’è semmai la consapevolezza, come ha spiegato ieri nel Salone delle feste il presidente uscente, di una crescita personale. «E’ stata un’esperienza molto dura e a tratti amara - ha detto Napolitano salutando le persone che hanno lavorato sul Colle - ma che mi ha arricchito in maniera straordinaria». Anche sul piano umano.
LA SINTONIA
E così il politico «totus politicus» che entrò nove anni fa in queste stanze, dopo aver ricoperto incarichi istituzionali ai massimi livelli come il ministero dell’Interno e la presidenza della Camera, adesso ne esce come un uomo di Stato che è riuscito a sintonizzarsi con gli umori profondi del Paese e con uno soprattutto: il desiderio dell’Italia, quella migliore, di non essere eccitata. Del resto regalandogli il suo libro «Kaputt», nella Napoli sconvolta e distrutta appena uscita dalla seconda guerra, Curzio Malaparte scrisse questa dedica: «A Giorgio Napolitano, che non perde la calma neppure nell’apocalisse». Non un luogo freddo, ecco, ma una zona di aria ben temperata non solo dal punto di vista politico ma anche da quello espressivo e del linguaggio: il Quirinale nell’epoca di Giorgio - e guai a chiamarlo Re Giorgio o peggio Cool George - questo è stato.
E comunque ieri notte è stata l’ultima notte che Napolitano ha trascorso qui dentro, nel suo appartamento al secondo piano - ma guardandolo da fuori è il primo piano - nel palazzo che fu dei papi. Adesso da chi verrà occupato il suo spazio? Uno degli ultimi libri ad essere stato portato via di qui s’intitola «Le istituzioni della democrazia». Opera di Giuliano Amato a cui ha collaborato - in veste di introduttore di uno dei capitoli, insieme a Giulio Napolitano, figlio di Giorgio - Sabino Cassese. Due personalità che, non sotto forma di carta, potrebbero succedere a Napolitano ma non è questo il tema adesso. E’ quello del distacco dal potere. E oggi, nel caso di Napolitano, avverrà al suono dell’Inno di Mameli nel cortile. Senza troppe fanfare. Senza tocchi personali o note di colore, come accadde per esempio con Francesco Cossiga il quale, lasciando anticipatamente il Colle, volle che fosse suonato per lui l’inno della Sardegna.
Non c’è nessun Riccardo III scespiriano che lascia il potere. Ci sono soltanto alcuni funzionari del Quirinale che dicono a Napolitano: «Ci ringrazi tanto la signora Clio e ci scusi con lei, se siamo stati troppo invasivi». E c’è, politicamente parlando, la fine di una stagione che ci si augura possa diventare un nuovo inizio, con altri personaggi e interpreti, in cui il Quirinale è diventato zona franca dal politichese e dalla rissosità endemica del teatrino italiano.
Nell’ultimo saluto ai consiglieri, ai collaboratori e ai dipendenti del Colle, il presidente uscente si è soffermato sulla «campagna di critica anche legittima» che ha investito la politica e i suoi costi, in questi anni, non risparmiando neppure il Quirinale. «Voi - ha detto - avete retto bene a questo clima. Bisognava rispondere respingendo le mistificazioni e le agitazioni demagogiche ma anche accettando lo spirito del cambiamento con spirito di sacrificio».
Si chiude il sipario. Oggi si smonta il palcoscenico. E non c’è nulla di più teatrale dell’assenza di teatralità.