Il 20 marzo prossimo potrebbe essere una data davvero importante per l’Abruzzo, perché potrebbe dare il definitivo via libera all’avventura del governatore Luciano D’Alfonso. È la data fissata dalla Corte d’Appello dell'Aquila per discutere del secondo grado del processo Housework, quello sulle presunte tangenti negli appalti al Comune di Pescara di cui D’Alfonso, all’epoca dei fatti, era sindaco e principale protagonista.
Il lungo e complesso processo di primo grado si concluse il 12 febbraio 2013 con una sonora sconfitta per la procura di Pescara e in particolare per il sostituto Gennaro Varone, il cui impianto accusatorio, piuttosto pesante, per i giudici del collegio pescarese si sarebbe rivelato nulla di più che un insieme di congetture. Risultato: dopo due anni di udienze e una infinità di personaggi che si sono alternati sul banco dei testimoni, arrivò una assoluzione con formula piena per l’ex sindaco D'Alfonso e per tutti gli altri 23 imputati del processo. Una sentenza che proiettò di nuovo D’Alfonso nell’arena politica (a dire il vero mai abbandonata neppure durante il processo) e lo portò ad una secca vittoria nelle successive elezioni regionali.
Contro quella sentenza, blindata sotto molti aspetti, che il collegio motivò con circa 300 pagine, rimanendo nelle questioni strettamente tecniche e senza divagazioni di nessun genere, presentò appello Varone, mantenendo il proprio convincimento colpevolista. Motivi di appello infarciti di un certo grado di virulenza nei confronti dei giudici pescaresi, che avevano scritto, senza mezzi termini, che su «D’Alfonso non c’è nessuna prova, ma soltanto salti illogici ingiustificabili», per dirla in estrema sintesi.
LE ACCUSE
Le posizioni trattate dalla procura in appello, e soltanto per alcuni capi di imputazione, riguardano, oltre all’ex sindaco D’Alfonso, quelle del suo braccio destro, Guido Dezio, degli imprenditori Massimo e Angelo De Cesaris, Carlo e Alfonso Toto, Rosario Cardinale, Giacomo Costantini, Nicola Di Mascio, Oietro Colanzi, Alberto La Rocca. E poi ancora Pierpaolo Pescara, Fabrizio Paolini, Giampiero Leombroni, Antonio Dandolo, Vincenzo Cirone, oltre ai due consulenti Marco Mariani e Francesco Ferragina. I capi di imputazione contestati agli imputati in primo grado erano piuttosto pesanti. A vario titolo venivano contestati reati di corruzione, concussione, tentata concussione, abuso d’ufficio, peculato, falso, truffa, appropriazione indebita e, naturalmente, l’associazione per delinquere che i giudici di primo grado spazzarono via con un colpo di spugna ritenendola inesistente. Diversi anche i filoni di inchiesta trattati nel processo: dall’appalto milionario ai Toto per l’area di risulta, a quello del project financing dei cimiteri, ai viaggi di D'Alfonso con Toto, alla realizzazione della sua villa a Manoppello. Tutti argomenti che dovranno essere ripercorsi in appello nel corso delle udienze che il collegio, non ancora nominato, dovrà esaminare.