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Data: 03/02/2015
Testata giornalistica: Il Messaggero
«Acque avvelenate, ma non ci fu dolo». Esclusi pericoli per la salute pubblica: con il nuovo decreto superamenti sporadici ma sempre entro i limiti di legge

Non c’è stato alcun pericolo per la salute pubblica: l’acqua del campo pozzi era sostanzialmente potabile e minimamente contaminata mentre l’acqua di falda, nel punto di maggiore contaminazione, non era neppure ipoteticamente destinabile per scopi alimentari perché a ridosso di uno stabilimento che produceva sostanze pericolose fin dai primi del ’900. Sono alcuni dei motivi per i quali non sussiste il reato di avvelenamento di acque, una valutazione oggettiva, anche a prescindere dalla posizione dei singoli imputati.
IL FATTO NON SUSSISTE
E’ il passaggio forse cruciale della motivazione della sentenza che il 19 dicembre scorso ha mandato assolte «perché il fatto non sussiste» le 19 persone finite sotto processo davanti alla Corte d'Assise di Chieti, presidente Camillo Romandini, giudice a latere Paolo Di Geronimo, per le cosiddette discariche dei veleni intorno al sito industriale Montedison: le accuse per tutti erano avvelenamento delle acque e disastro ambientale. Una ricostruzione monumentale quella tracciata dal giudice Di Geronimo, estensore delle motivazioni. Un documento di 188 pagine che ricostruisce in punto di fatto e di diritto, soprattutto con riguardo al dolo, una vicenda complessa.
Il giudizio di pericolosità, si legge nella motivazione, va effettuato con riguardo alle acque emunte al campo pozzi di Colle Sant’Angelo, posto che è solo in quel determinato punto che la falda acquifera viene materialmente attinta e concretamente impiegata per uso alimentare. E il livello di contaminazione delle acque del campo pozzi, in base ai dati delle analisi nel periodo 1992-2002, è risultato conforme ai valori soglia previsti dal Dpr 238/88, rimasto in vigore fino a tutto il 2003 e che disciplina i requisiti per valutare l'acqua come potabile. Dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo 31/01 si sono verificati superamenti sporadici, sempre al di sotto dei limiti previsti dal Dpr236/88 per singole sostanze come tricloroetilene e tetracloroetilene e tetraclorometano.
I giudici sottolineano poi che gli elementi per accertare la contaminazione erano tutti disponili e noti agli enti, a prescindere dal contenuto del piano di caratterizzazione. Quanto alla discarica Tre Monti, di cui gli imputati non conoscevano l’esistenza, fu realizzata e usata per sei mesi fino al maggio 1972, quanto meno per interrare le peci clorurate che hanno contaminato la falda.
NESSUNA STRATEGIA DEI VELENI
La motivazione smonta anche l'assunto accusatorio secondo cui ci fu una strategia unitaria di impresa per perseguire la finalità criminale di avvelenare dolosamente l'acqua: in sostanza inquinamento e avvelenamento sono autonomi e non si può sostenere che la volontà della contaminazione sia la prova della volontarietà dell’avvelenamento. Pacifica invece la sussistenza del disastro ambientale: l’area dello stabilimento e quelle su cui si trovano la Tre Monti e le discariche nord presentano un’elevatissima contaminazione. Il reato, derubricato in colposo, è stato dichiarato prescritto: la gravità dell’inquinamento ha raggiunto la soglia del disastro molto prima del 2007, ovvero verso la fine degli anni '90.

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