ROMA Puntualissimo. Addirittura in anticipo. Sergio Mattarella giura alle 9,58, due minuti prima del previsto, quando molti banchi del centrodestra sono ancora vuoti. Aveva annunciato un discorso di mezz’ora, non sfora neppure di un secondo. Nel frattempo i ritardatari di Forza Italia riempiono i buchi dell’emiciclo stoppando le ipotesi di uno sgarbo istituzionale. Dal Gianicolo partono i canonici colpi di cannone. La fanfara suona l’Inno Nazionale. Fra elogi condivisi e bipartisan (leghisti e grillini compresi) comincia il settennato.
CORRETTEZZA IN CAMPO
Alla fine del discorso al Parlamento gli applausi saranno quarantadue, più di uno al minuto. Ma il più fragoroso, il più sentito, il più lungo, è il quindicesimo: «L’arbitro deve essere imparziale, e lo sarà». Parla in terza persona, un artificio retorico per dare più credibilità a un impegno che rischia di essere ovvio. Ogni arbitro si definisce imparziale. Ed è come se dicesse: conosco bene Sergio Mattarella, e vi garantisco che manterrà la promessa. A una condizione, però: «Che i giocatori lo aiutino con la loro correttezza». E qui l’applauso è più incerto, più preoccupato.
Wanda Cortese, sua ex collega all’Università di Palermo, lo guarda in tv: «Lo conosco bene: è molto emozionato». A vederlo dal vivo nell’aula di Montecitorio appare invece molto controllato, attento a non fare e non dire nulla che possa sembrare un cedimento alla politica spettacolo. Preoccupato di tenersi alla larga dalle strategie delle frasi a effetto: «Non servono generiche esortazioni a guardare al futuro, ma la tenace mobilitazione di tutte le risorse della società italiana». Ogni riferimento a persone esistenti è puramente casuale?
AVANTI SULLE RIFORME
Strapieni i posti riservati al governo. Renzi al centro, Alfano e Orlando ai suoi lati. Lupi però non c’è. Il premier e il ministro dell’Interno ostentano familiarità e ilarità. Ma non muovono un muscolo quando il Capo dello Stato parla di riforme, specialmente delle riforme costituzionali, Senato e articolo quinto: «Senza entrare nel merito delle singole soluzioni che competono al Parlamento, auspico che questo percorso delle riforme si porti a compimento con l’obiettivo di rendere più adeguata la nostra democrazia». Come a dire: andate avanti. Nella tribuna riservata ai delegati regionali i leghisti Maroni e Zaia rimangono impassibili a sentir parlare di «unità nazionale che lega indissolubilmente Nord e Sud». Chiamparino e Vendola li stuzzicano: «Guardate che se applaudite non vi si consumano le mani». In un’altra tribuna si accalcano vecchie glorie della Dc: Nicola Mancino e Franco Marini, Cirino Pomicino e Gerardo Bianco. Euforici e nostalgici. Da Torino è arrivato Guido Bodrato, 82 anni: «Mattarella dice cose complesse con un linguaggio semplice, diretto». Molto poco democristiano, quindi. Le «cose semplici» sono prima di tutto la fotografia di un paese in difficoltà. «La lunga crisi ha inferto ferite al tessuto sociale. Ha aumentato ingiustizie, generato nuove povertà, prodotto emarginazione e solitudine, messo in difficoltà famiglie, tolto prospettive ai giovani». Bisogna invertire la rotta, privilegiare la crescita economica, soprattutto a livello europeo. E, dice, durante il semestre di presidenza dell’Unione Europea «il governo ha opportunamente seguito questa strategia». L’applauso di Renzi è come un sospiro di sollievo.
IL LINGUAGGIO DI EINAUDI
Valeria Della Valle, direttrice del vocabolario Treccani, sostiene che «il linguaggio asciutto del siciliano Mattarella ricorda quello del piemontese Einaudi». Aggiunge che nel discorso presidenziale, oltre alla parola unità, spiccano le parole comunità, bene comune, coesione. «Che si conquistano» dice Mattarella «dando applicazione alla nostra Costituzione». Che non è una insieme di concetti astratti, ma di fatti concreti, da «vivere giorno per giorno». Diritto allo studio, al lavoro, difesa più deboli, giustizia rapida, tutela delle donne.
Nell’aula di Montecitorio c’è pure chi pensa ad altro. Gasparri si entusiasma perché «io e Casini abbiamo la stessa cravatta». Una grillina arriva a metà discorso e, zainetto in spalla, attraversa l’emiciclo col passo frettoloso di uno studente in ritardo. Già, i grillini. Pure loro di tanto in tanto applaudono. Specie quando il presidente parla del «risultato prezioso» delle ultime elezioni che hanno fatto entrare in Parlamento «molti giovani e molte donne». Però arriva anche la bacchettata: «Perché non basta l’indignazione, bisogna anche dare un contributo positivo».
LA GUERRA DEGLI APPLAUSI
I più entusiasti sono i siciliani. Il governatore Crocetta non sta nella pelle. Beppe Lumia (Pd) si lascia andare: «Mattarella sta rileggendo la Costituzione in chiave sociale». A un certo punto l’applausometro di Montecitorio è il termometro degli stati d’animo politici. S’ode a destra uno squillo di tromba per l’auspicio di una «conclusione positiva della vicenda dei marò prigionieri in India». Da sinistra risponde uno squillo al ricordo della «Resistenza e del sacrificio di chi settant’anni fa liberò l'Italia dal nazifascismo». Ma stranamente nessuno applaude quando fa un appello a processi più brevi.
L’esortazione a «ripudiare la guerra e promuovere la pace» esalta i settori del Pd e dintorni. Quella a «sostenere la famiglia» scalda il centrodestra. Poi ci sono le ovazioni globali: «La mafia è un cancro pervasivo che distrugge le speranze. Per sconfiggerla occorre una moltitudine di persone oneste, competenti, tenaci. E una dirigenza politica capace di compiere il proprio dovere». Ancora: «La corruzione ha raggiunto livelli inaccettabili». Cita papa Francesco e le sue parole contro i corrotti: «Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini». Nelle tribune degli ospiti spicca la berretta rossa del cardinal Vallini, vicario del papa per la diocesi di Roma. Però chi si aspetta dal cattolico Mattarella un profluvio di riferimenti religiosi deve ricredersi. Non parla mai di dio, non invoca la benedizione di nessuno. E anzi: «Va condannato e combattuto chi strumentalizza a fini di dominio il proprio credo, violando il diritto fondamentale alla libertà religiosa». E come non bastasse, traduce in questo modo la parola libertà: «E’ il pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale, economica, personale e affettiva».
Ecco, il discorso è quasi concluso. Ma c’è ancora un capitolo dirimente: la lotta al terrorismo internazionale. Torna al 1982, all’attentato alla sinagoga di Roma che costò la vita a Stefano Taché: «Aveva solo due anni, era un nostro bambino, un bambino italiano». C’è dentro tutto, il ripudio delle contrapposizioni religiose e razziali, la consapevolezza che il pericolo del terrore non è lontano da noi. «Un fenomeno così grave non si può combattere rinchiudendosi nel fortino degli Stati nazionali».
IL VOLTO DELLA REPUBBLICA
Il finale è una galleria di ritratti. «Il volto della Repubblica è, per i cittadini, quello che si presenta nella vita di tutti i giorni. L’opsedale, il Municipio, la scuola, il museo». Il volto degli italiani è quello «speranzoso dei giovani», preoccupato degli anziani, tanace di «chi non si arrende alla sopraffazione». A loro la politica deve guardare e deve saper parlare.