Quello che stupisce nelle polemiche su L’Aquila zavorra d’Abruzzo non è tanto che ci siano personaggi in cerca d’autore che per un quarto d’ora di celebrità staccano il cervello e parlano, quanto che ci sia chi, come per lesa maestà, è pronto subito a ribattere, replicare, rinfocolare polemiche inutili quanto insensate. Nel caso Primavera-Costantini l’atteggiamento più serio da parte della politica aquilana sarebbe stato il classico: non ti curar di loro ma guarda e passa. E invece, avrebbe scritto il Manzoni, “la sventurata rispose”. L’Aquila, anche se nessuno lo ammette _ ha la sindrome del brutto anatroccolo. Si vede sempre assediata e messa in discussione. Per questo si comporta come quell’amante che temendo il tradimento _ pur senza che ce ne siano i presupposti reali_ chiede continue conferme all’amato. Della serie: mi ami? Ma quanto mi ami? Ed ecco lamentele, piagnistei, rivendicazioni. E giù una valanga di parole a perdere per dire: no, non siamo il brutto anatroccolo anzi siamo la più bella del reame e guai a chi ci tocca. Strano che nella città dello sberleffo elevato a filosofia di vita ci si risenta per qualche frase in libertà che arriva da chi L’Aquila non l’ha vista nemmeno in cartolina. Ma forse questa poteva essere l’occasione per fare un po’ di autocritica e rilanciare. Ma vai a trovare un politico aquilano capace di ammettere errori da cui trarne il giusto insegnamento. Il capoluogo continua, nonostante il terremoto, a crogiolarsi in una sorta di autarchia che ha i confini di sempre: dentro le mura non ci vogliamo nessuno, qui comandiamo noi, la ricostruzione è cosa nostra. Eh sì, perché il territorio sacro è quello delimitato dalla cinta difensiva che origina nel medioevo. Anche i cittadini delle frazioni sono un po’ cittadini di serie B tanto che sono stati aperti cantieri nel centro storico per centinaia di milioni a favore dei palazzi della società che conta, mentre i cafoni dei paesi _ di cui chi scrive si onora di far parte _ possono solo attendere le briciole che cadranno dal tavolo alla fine del lauto banchetto. È questo il vero problema della città: chiudersi sempre più in se stessa per paura di confrontarsi con il mondo che la circonda. I reggitori del bene comune dovrebbero spalancare le finestre e guardare oltre le storiche porte cittadine. Invece dietro l’alibi del “come era e dove era” si sta facendo una operazione conservatrice a tutela di chi di soldi ne ha piene le tasche e a svantaggio di chi è in cerca di occasioni per restare e fare dell’Aquila un esempio virtuoso per il mondo. Basta con il vedere nemici dappertutto, L’Aquila ha bisogno di idee e progettualità. E di una classe dirigente che guardi lontano, oltre il proprio naso e il proprio muretto. Sarebbe lo schiaffo più forte a chi pensa che la città deve restare seppellita sotto le sue macerie. Non diamola vinta ai detrattori. Ma rimbocchiamoci le maniche.