ROMA Un lavoratore dipendente in tasca si ritrova poco più della metà del valore della sua prestazione. Il resto se ne va infatti in tasse, tra imposte e contributi a suo carico e quelli pagati dal datore. Ecco che se il costo del lavoro è pari a 30mila e 953 euro, quello che diventa retribuzione netta si ferma al 53,3% del totale. A prescindere dal prelievo fiscale, in fatto di reddito lordo, uno su quattro in Italia è sotto i diecimila euro, una percentuale che sfora il 40% se si guarda solo agli autonomi. I conti dell’Istituto di statistica risalgono al 2012, ma ormai ci troviamo di fronte a una sorta di costanti. Rispetto al passato a cambiare è solo qualche decimale. E spesso i piccoli aggiustamenti non fanno altro che inasprire vecchi tratti. Durante gli anni di crisi il cosiddetto cuneo fiscale, la differenza tra il costo del lavoro e lo stipendio, si è allargato ancora un po’, per attestarsi nel 2012 al 46,7%. Certo, non per tutti è lo stesso. Anche tra i dipendenti c’è chi sconta un cuneo più accentuato, come i dirigenti, e uno un po’ più leggero, come gli operai. D’altra parte il cuneo cresce al salire dei guadagni. Le vere differenze si riscontrano però con il lavoro autonomo, qui non si parla più di cuneo fiscale (non c’è un datore) ma d’incidenza delle imposte, che è pari al 19,1% del reddito. L’Istat riconosce che le famiglie che vivono di attività indipendenti hanno un minor carico fiscale, ciò anche a causa, spiega, di contribuenti minimi o altre agevolazioni. Aiuti che ad esempio si fanno sentire anche su chi ha figli, al contrario risulterebbero penalizzati i single (la tipologia familiare più tartassata). Se si mette da parte il nodo tasse e si guarda ai redditi lordi le diversità non si affievoliscono. Basti pensare che la percentuale di autonomi sotto i 15mila euro annui supera il 55%, mentre per i subordinati è del 39%. L’Istat non fa che certificare situazioni note e non solo a livello di mondo del lavoro ma anche, soprattutto, guardando alle condizioni economiche del Paese, che nel 2013 si ritrova con un Pil pro-capite nel Mezzogiorno (17.200 euro annui) pari a circa la metà di quello del Centro Nord (31.700 euro). Ecco comunque la classifica delle Regioni italiane, dalla più ricca alla più povera in termini di Pil procapite. Una graduatoria che si basa sul Prodotto interno lordo fatturato nel 2013, secondo le rilevazioni dell’Istat. Si va così dalla provincia autonoma di Bolzano, la più ricca, alla Calabria, la più povera: provincia autonoma Bolzano 39.800 Valle d’Aosta 36.800 Lombardia 36.300 Provincia autonoma Trento 33.600, Emilia Romagna 32.500, Lazio 31.700, Liguria 30.200, Veneto 30.000, Toscana 29.000, Friuli Venezia Giulia 28.600, Piemonte 28.500, Marche 24.900, Umbria 24.400, Abruzzo 23.000, Molise 18.800, Sardegna 18.800, Basilicata 18.300, Campania 17.000, Sicilia 16.500, Puglia 16.200, Calabria 15.500. «I dati diffusi dall’Istat fotografano gli effetti drammatici di sei anni di crisi e evidenziano ancora una volta il baratro esistente tra Nord e Sud del Paese. È necessario intervenire con strumenti e politiche concrete: gli annunci e la nascita di un ministero per il Mezzogiorno non sono sufficienti». Così il segretario confederale della Cgil Gianna Fracassi commenta i dati dell’Istituto di statistica sul Pil pro capite nel 2013, da cui emerge che il Prodotto interno lordo per abitante nel Sud Italia è inferiore del 45,8 per cento rispetto a quello del Centro-Nord.