ROMA Sul tavolo di ieri la patata bollente non è proprio arrivata. Di licenziamenti collettivi non se ne è parlato. A specifica domanda il ministro Poletti ha immediatamente tolto la portata dal piatto: «Deciderà il Consiglio dei ministri. Io oggi non sono in grado di anticipare nulla». Un modo per lavarsene le mani, ma anche per comunicare ai partecipanti all’incontro che la questione sarà risolta esclusivamente dal premier Renzi. Sarà lui a decidere se accontentare la minoranza del suo partito che in entrambe le commissioni Lavoro di Camera e Senato è riuscita a far passare, con il soccorso di Sel e Cinquestelle (e lo strappo con i centisti alleati), la richiesta di escludere dal decreto che introduce il contratto a tutele crescenti l’applicazione delle nuove norme sul recesso ai licenziamenti collettivi. Il parere delle commissioni non è vincolante e quindi Renzi potrebbe anche non accogliere i suggerimenti, lasciando tutto com’è.
Ma ai piani alti di Confindustria cresce il timore che il premier, invece, possa piegarsi al pressing della minoranza dem. Sarebbe una scelta «puramente politica» ragionano. «Dal punto di vista tecnico non ha alcun senso: un’impresa ricorre ai licenziamenti collettivi quando le cose non vanno, il mercato non gira, c’è un serio problema economico». E allora - continuano - se si stabilisce che non è più possibile ottenere la reintegrazione sul posto di lavoro nel caso di licenziamento economico individuale, a maggior ragione questo principio deve valere per i licenziamenti collettivi che sono economici per definizione.
L’esito dell’incontro di ieri con Poletti sul decreto che riordina le tipologie contrattuali, anziché rasserenare gli industriali, ha aumentato le preoccupazioni di una retromarcia sui licenziamenti collettivi. Non solo perché Poletti ha schivato l’argomento, ma soprattutto per una questione di “bilanciamento”: sinistra Pd e sindacati chiedevano un intervento più incisivo sulle forme di precariato; intervento che a detta dei sindacati e, in base a quanto illustrato dal ministro, per ora non ci sarebbe.
LO SCAMBIO
Ma Renzi alla sua minoranza - dopo la pacificazione sull’elezione del Presidente della Repubblica e lo strappo con Forza Italia - qualcosa dovrà pur dare per continuare a tenerli buoni. Il dubbio è che abbia già deciso di sacrificare le modifiche ai licenziamenti collettivi. Per Confindustria sarebbe una tragedia: «Verrebbe vanificata la portata innovativa del jobs act. Se Renzi ha a cuore il giudizio di Bruxelles e la ripresa dell’occupazione non dovrebbe cedere».
Meglio quindi un ridimensionamento dei contratti a termine (si era parlato di una riduzione della durata massima consentita), così come pure chiedono Damiano e company? A viale dell’Astronomia si rifiutano di seguire questo ragionamento: sono due cose completamente differenti, i contratti a termine - ricordano - sono stati modificati proprio da questo governo lo scorso anno e «non si possono cambiare le regole del gioco ogni sei mesi».
Preoccupa anche la terza via (la prima è ignorare i suggerimenti delle commissioni; la seconda è accoglierli) che Renzi potrebbe decidere di intraprendere domani: stralciare i licenziamenti collettivi dal decreto sul contratto a tutele crescenti, con la promessa di reinserirle - magari per tutti e non solo per i nuovi assunti - in uno dei prossimi decreti di attuazione del jobs act in cottura. È comunque una via «scivolosa» per Confindustria. Perché più ci si avvicina al traguardo sulle riforme costituzionali, più il consenso della minoranza dem potrebbe servire.