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Pescara, 24/11/2024
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22/02/2015
Il Messaggero
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Avvocati, taxi, farmacie, edicolanti gli intoccabili delle liberalizzazioni |
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ROMA Un passo in avanti, almeno, è stato fatto. Il governo è riuscito a presentare una legge sulla concorrenza. Ed è la prima volta che accade. Eppure, a voler essere pignoli, sarebbe un obbligo fin dall’ormai lontano 2009, quando il governo Berlusconi IV stabilì con una legge che ogni anno le indicazioni dell’Antitrust fossero recepite dall’esecutivo in carica con un provvedimento. È dovuto passare un lustro da quel solenne impegno perché un governo si degnasse di rispettarlo. Per il resto il film del consiglio dei ministri di venerdì 20 sembra, per molti versi, un remake. Gennaio 2012, governo Monti, decreto «Cresci Italia». Nel consiglio dei ministri presieduto dal senatore a vita entrò un testo che prevedeva che entro marzo del 2013 nelle Regioni che non avessero provveduto ad aumentare il numero di farmacie portandole alla quota di una ogni 3.000 abitanti, fosse data la possibilità di vendere i farmaci di fascia C alle parafarmacie e nei corner salute dei supermercati. Neanche allora se ne fece nulla. Entrata dalla porta la liberalizzazione dei farmaci uscì subito dalla finestra, e i resoconti del consiglio dei ministri furono mestamente costretti a registrare che i «farmaci di Fascia C, quelli interamente a carico del cittadino, potranno essere venduti solo nelle farmacie». DÉJÀ VU Una frase fotocopia di quella pronunciata ieri dal ministro delle Sviluppo economico, Federica Guidi, le cui aspirazioni liberalizzatrici nel campo della distribuzione dei farmaci si sono schiantate contro le resistenze del Nuovo Centro Destra e della lobby delle 18 mila farmacie private italiane, definita dagli operatori della grande distribuzione «una delle più potenti d’Italia». Attorno alla vendita dei famaci di Fascia C, del resto, c’è un giro d’affari che vale 3 miliardi di euro, una bella fetta di torta dell’intero mercato. Se la lobby dei farmacisti interviene silenziosamente, quella dei tassisti è ben più rumorosa. Ma altrettanto efficace. Quando Pier Luigi Bersani, con le sue lenzuolate del 2006 provò ad imporre una doppia licenza per le auto bianche, successe il finimondo. Ci andò di mezzo persino Francesco Giavazzi, professore della Bocconi che con i suoi editoriali aveva provato a difendere le intenzioni del governo. I tassisti milanesi provarono ad organizzare una protesta che prevedeva cortei di auto bianche che h24 passassero sotto l’abitazione del professore suonando il clacson. A Roma, invece, per giorni stazionarono a Piazza Santi Apostoli, sotto la sede del Partito Democratico. Alla fine Bersani fu costretto a lasciar perdere. Pure Monti, sempre nel Cresci Italia abbozzò qualcosa sui tassisti. Ma per stralciare non ci su nemmeno bisogno di grandi proteste. Un po’ come è accaduto con il provvedimento di Renzi e Guidi. Nella bozza arrivata in consiglio dei ministri c’era una norma, chiesta dall’Antitrust, che equiparava l’autonoleggio con conducente alle auto bianche. Cassata senza appello. Avrebbe tolto qualsiasi limitazione ad un servizio come Uber, che pure è avversato fino all’estremo dai tassisti. I PROFESSIONISTI Su un’altra questione Renzi non ha provato nemmeno a cimentarsi. Eppure è dal 1983, governo Craxi, che se ne discute: l’abolizione degli ordini professionali. Un esercito di 2 milioni di iscritti diviso in 25 corporazioni con un giro d’affari di 200 miliardi di euro. Ben rappresentato in Parlamento, soprattutto nella componente degli avvocati, per cui ogni tentativo di abolire o riformare si infrange contro altissimi scogli. Nella lenzuolata renziana un tentativo viene fatto con i notai, a cui viene tolta l’esclusiva sugli atti di compravendita di immobili non abitativi di valore inferiore a 100 mila euro. C’è da fare gli auguri al governo. Che ha provato a riaprire altri due dossier considerati degli evergreen dei provvedimenti di liberalizzazione: la distribuzione dei giornali e gli sconti per i libri, oggi vietati per legge se superiori al 15 per cento. Respinto con perdite anche in questo caso. Eppure, sulle liberalizzazioni di strada da fare ce ne sarebbe tanta. Compresa l’apertura dei mercati locali appannaggio delle municipalizzate, altra montagna che il governo Renzi sta provando da tempo a scalare. L’Istituto Bruno Leoni, il think tank turbo liberale, ogni anno pubblica un indice chiamato, appunto, delle liberalizzazioni, un dossier curato da Carlo Stagnaro, attuale consigliere del ministro Guidi proprio sul tema. Nell’ultima classifica, l’Italia ha ottenuto 66 punti su cento. In pratica un sei e mezzo, un po’ più della sufficienza. Eppure tutti gli organismi nazionali e internazionali, non mancano di far notare come dall’apertura dei mercati potrebbero arrivare per Roma importanti benefici economici. Secondo le stime della Commissione europea, dalle liberalizzazioni l’Italia potrebbe ricevere una spinta del Prodotto interno lordo dello 0,7 per cento in dieci anni. Il Fondo Monetario internazionale è decisamente più ottimista. Secondo gli esperti di Washington, l’apertura dei mercati ancora chiusi potrebbe far crescere l’economia addirittura di 4 punti in soli cinque anni. Quel che è certo, come ha spiegato la Banca d’Italia, che non liberalizzare ha un costo. Il ritardo sui mercati e sulla competitività vale l’8 per cento del Pil. In meno, ovviamente.
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