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Pescara, 24/11/2024
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Data: 23/02/2015
Testata giornalistica: Il Messaggero
Licenziamenti collettivi, i pareri ignorati e la divisione tra vecchi e nuovi assunti. Il limite. La platea. È collettivo il licenziamento che coinvolge almeno 5 dipendenti nell’arco di 120 giorni

ROMA Da quando è iniziata la nuova legislatura siamo già al numero 148. Il primo fu espresso ad aprile 2013 e riguardava la salvaguardia di una nuova pattuglia di 10.000 esodati. Il secondo era relativo all’otto per mille, poi in successione ci sono stati quelli sulle manifestazioni da abbinare alle lotterie nazionali, sul riordino delle scuole militari, sul buco dell’ozono, sul blocco dei contratti e degli stipendi nella pubblica amministrazione, sulle attuazioni di direttive comunitarie, e così via fino appunto all’atto n. 148 ancora in corso di esame. Si tratta dei pareri sugli atti del governo, obbligatori per concludere l’iter dei provvedimenti, ma non vincolanti. Per i componenti delle commissioni parlamentari coinvolte significano analisi delle disposizioni, emendamenti, votazioni, ore e ore di dibattiti e a volte vivaci discussioni. È andata così anche per l’atto n. 134, ovvero il parere sul decreto che istituisce il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Alla fine, sia dalla commissione Lavoro del Senato che da quella della Camera, è arrivato parere favorevole. Ma è stato un percorso sofferto, con momenti di tensione all’interno della stessa maggioranza che, infatti, al voto finale si è divisa: la posizione dei centristi (Ncd- Udc-Sc) è andata in minoranza; è passata quella del Pd ma con il soccorso di Sel e Cinquestelle. Renzi ha dovuto scegliere: o accontentava gli uni o gli altri.
Ma qual è il principale pomo della discordia? L’applicazione delle nuove norme anche ai licenziamenti collettivi. Il decreto varato dal governo alla vigilia di Natale li aveva inglobati, sorprendendo molti visto che durante la discussione sulla delega in Parlamento si era parlato solo di licenziamenti individuali. I pareri successivi di entrambe le Camere, su spinta della minoranza dem, ne hanno chiesto l’esclusione. Il governo ha deciso di non tenerne conto e di confermare l’impianto originario, lasciando nel decreto anche i licenziamenti collettivi.
IL DOPPIO BINARIO

Dal primo marzo, ovvero dall’entrata in vigore del decreto, un’azienda in difficoltà economiche che decide di affrontare un processo di ristrutturazione e riorganizzazione, potrà quindi gestire gli esuberi con un percorso decisamente più semplice e meno irto di ostacoli e paletti rispetto all’attuale legislazione. In pratica se non rispetta i vincoli fissati dalla legge 223 del 1991, in particolare procedure e criteri di scelta, in caso di ricorso da parte dei lavoratori non sarà più costretta dal giudice al reintegro, ma esclusivamente al pagamento di un indennizzo nella stessa misura di quello stabilito per i licenziamenti individuali per motivi economici o per giusta causa: ovvero due mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 e un massimo di 24. È bene ricordare che le «tutele crescenti» riguardano solo gli assunti dopo l’entrata in vigore del provvedimento (presumibilmente il primo marzo), per cui nel caso di un ricorso per un licenziamento collettivo che viola i principi della legge 223/91 e che coinvolge vecchi e nuovi dipendenti il giudice potrebbe trovarsi di fronte al paradosso di stabilire il reintegro sul posto di lavoro per i vecchi e il solo indennizzo per i nuovi.

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