Investitori esteri e giovani: sono queste le constituencies alle quali Matteo Renzi si rivolge con quella riforma del mercato del lavoro che è stata la priorità assoluta del governo che è appena arrivato al suo primo anno di vita e che con l’approvazione dei decreti attuativi da parte del Consiglio dei Ministri della settimana scorsa diventa legge effettivamente funzionante. Tuttavia, sia i protagonisti dell’economia globale che le nuove generazioni hanno bisogno, ora, di ulteriori, più difficili cambiamenti per poter davvero percepire che questo governo è un alleato e che il cambio di direzione e di velocità dell’Italia è talmente definitivo da poter modificare in maniera netta anche i propri comportamenti e aspettative. A cominciare dalla riforma dell’amministrazione pubblica dalla quale dipende l’esito di tutte le altre riforme.
È l’incertezza nei rapporti con lo Stato e in quelli che dallo Stato sono intermediati, il fattore che più di ogni altro pesa in negativo sulla decisione di un’impresa di scegliere un Paese rispetto ad un altro per la localizzazione dei propri investimenti. In questo senso, la riforma del mercato del lavoro, appare pensata, soprattutto, per le esigenze delle multinazionali che, ogni anno, investono in un Paese diverso da quello di origine, 1.800 miliardi di dollari. Di questa cifra che da sola è stata capace di accendere lo sviluppo di Paesi come la Cina e la Corea, o di sostenerla in economie di sviluppo più consolidato come l’Irlanda o l’Olanda, l’Italia cattura ogni anno una quota inferiore all’uno per cento.Tre volte inferiore a quella che fa registrare la Spagna che sta uscendo da una crisi simile a quella nostra. La riforma del mercato del lavoro contribuisce a ridurre uno dei fattori che maggiormente impediscono ad un potenziale investitore di calcolare il ritorno di un possibile investimento in Italia: sparisce (anche se essa permane per i licenziamenti discriminatori) la possibilità che sia un giudice a far rivivere un contratto di lavoro che una delle due parti non vuole più; viene definito il costo - crescente con il crescere dell’anzianità del rapporto di lavoro - per l’imprenditore di un allontanamento del lavoratore se non ricorrono “giustificati motivi” o “giuste cause”; il ridimensionamento temporaneo delle mansioni diventa normale, laddove ciò è già una componente di flessibilità fisiologica nei rapporti tra chi fornisce un lavoro e chi lo presta. In definitiva il posto di lavoro cessa di essere un diritto della persona e diventa, più pragmaticamente, un diritto economico: principio del resto anticipato dalla realtà che ha visto, in questi anni di profonda crisi, meno del cinque per cento dei lavoratori a tempo indeterminato licenziati chiedere l’intervento del giudice, e meno dell’uno per cento preferire all’indennizzo, la reintegra in una situazione nella quale la fiducia reciproca era compromessa.
Questa semplificazione vale però in maniera limitata per le imprese già esistenti perché essa riguarda solo i nuovi contratti (e le aziende che già operano in Italia saranno costrette a gestire contemporaneamente lavoratori pienamente protetti ed altri a tutele crescenti) e non per quelle con meno di quindici dipendenti perché ad esse l’articolo diciotto già non si applicava (anche se con la nuova legge si riduce il dualismo fissato dalla soglia dei quindici dipendenti e il disincentivo alla crescita). Di fatto, il vantaggio più grande lo ha chi decide di fare un investimento - di media o grande dimensione - nuovo in Italia.
Tuttavia, per poter fare degli investimenti esteri un’autentica leva di crescita bisognerà aggredire altri tre fattori di incertezza: la complessità del sistema tributario che rende assai difficile pianificare quanto in tasse bisogna pagare allo Stato; i tempi e la relativa imprevedibilità della giustizia che compromettono la possibilità di una concorrenza corretta tra le imprese e tra imprese e consumatori; e, soprattutto, l’inefficienza di un’amministrazione pubblica che appare bloccata dall’impossibilità di distinguere al proprio interno chi fa bene il proprio lavoro da chi sta distruggendo valore. Tale ultima riforma condiziona tutte le altre - dall’efficienza del sistema tributario e della giustizia fino a quella dei centri per l’impiego a cui è affidata una parte assai rilevante della stessa riforma del mercato del lavoro - e non è un caso che il ministro dell’economia Padoan affida a tale cambiamento l’impatto potenziale sul Pil (+1,4%) più elevato delle riforme che il governo ha in cantiere.
Per attrarre gli stranieri, a tali azioni occorrerà, poi, aggiungere un drastico potenziamento degli interventi di liberalizzazione che scardinino la protezione di categorie e campioni nazionali che hanno esaurito la capacità di competere; nonché scelte di politica industriale e un piano di marketing del Paese che si focalizzi su quelle che sono le nostre, possibili “specializzazioni intelligenti”.
La riforma promette però anche di riportare alla normalità un’intera generazione di giovani lasciati alla mercé di un mondo senza alcuna tutela, laddove i loro genitori sono abituati a godere di protezioni assolute. L’abolizione delle collaborazioni che mascheravano rapporti di lavoro di tipo subordinato è un passo fuori dal precariato. Ma, soprattutto, si estende il diritto ad un’assistenza da parte dello Stato a chi perde un lavoro non stabile e che avrà la possibilità di accedere al supporto della Assicurazione Sociale per l’Impiego (e all’Assegno di disoccupazione).
Per consolidare la svolta, tuttavia, è necessaria una trasformazione ancora più radicale dell’intera infrastruttura - pubblica e privata - che si occupa di formazione e reinserimento nel mondo del lavoro e che è nelle mani di Regioni che non riescono a scalfire nicchie di mercati protetti. Oggi essa è pensata quasi esclusivamente per fornire uno stipendio a chi forma. Il rimedio sta tutto nella misurazione trasparente delle prestazioni, nel pagamento a risultato dei formatori, nella scelta del percorso migliore che deve essere affidata al diretto interessato.
Lo schema di decreto che riordina gli ammortizzatori sociali introduce, in effetti, un “contratto di ricollocazione” (fortemente voluto da Pietro Ichino) che assegna al disoccupato una dote da spendere presso la struttura che meglio sembra poterlo aiutare. Tuttavia, è questa è la parte della riforma che maggiormente presenta forti dubbi interpretativi (in quanto, contemporaneamente, il decreto in altri articoli conferma il monopolio dei centri per l’impiego e delle Regioni), sarà la pubblica amministrazione stessa (e nello specifico il Ministero del lavoro) a dover chiarire con circolari condizionate dalla verifica dei soldi effettivamente disponibili per finanziare le promesse e dagli scontri tra enti che difendono il proprio territorio. Del resto, ciò rimanda di nuovo alla riforma dell’amministrazione pubblica (e degli assetti istituzionali dello Stato) che, a questo punto, non può più attendere.
È un passo avanti questa riforma del mercato del lavoro. Ma se questo governo è intenzionato a sfidare poteri sempre meno forti puntando sull’alleanza tra chi finora è stato esterno al sistema, è questo il momento per accelerare sugli altri cambiamenti che devono riportare l’Italia a crescere con un modello di sviluppo diverso da quello che si è esaurito vent’anni fa.