ROMA Tra i vari indicatori che descrivono l’andamento del mercato del lavoro, ce n’è uno che nei prossimi mesi andrà seguito con particolare attenzione: è quello relativo ai lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato e orario pieno. Insomma il famoso “posto fisso”, espressione che qualche anno fa aveva acquisito un significato quasi dispregiativo e che è poi stata rivalutata nel corso della lunghissima recessione.
Per questo fondamentale segmento, che vale tuttora oltre la metà degli occupati complessivi (quasi 12 milioni su 22.375.000) le cose continuano a non andare bene, nonostante i timidi segnali positivi che si possono riscontrare nei dati aggregati e che spingono ad esempio Paolo Mameli, senior economist di Intesa San Paolo, a concludere che «il peggio per il mercato del lavoro è alle spalle».
Se infatti il numero degli occupati lo scorso anno è certamente cresciuto (+156 mila nel quarto trimestre rispetto allo stesso periodo del 2013, 88 mila nella media 2014) questa tendenza è dovuta in particolare all’incremento di contratti a termine (aumentati di ben 145 mila unità da quarto trimestre a quarto trimestre) e del part time cosiddetto involontario, quello cioè che i lavoratori accettano non per scelta di vita ma come ripiego, in mancanza di altre possibilità. Mentre quest’ultima tendenza, che si protrae dal 2010, testimonia il costante sforzo di adattamento alla crisi, il ricorso al tempo determinato di per sé non sarebbe un segnale negativo: è piuttosto normale che le imprese scelgano questa forma di assunzione quando inizia a manifestarsi un incremento della domanda in uno scenario però ancora incerto.
I LAVORI ATIPICI
Ma nelle prossime settimane gli andamenti produttivi che influenzano il mercato del lavoro si incroceranno con le scelte politiche fatte dal governo. In particolare quella di favorire il contratto a tempo indeterminato sia attraverso incentivi economici pesanti (la cancellazione dell’onere dei contributi previdenziali, entrata in vigore già a gennaio) sia mediante nuove regole (la maggiore flessibilità in uscita ottenuta limitando il reintegro in caso di licenziamento, che scatta concretamente proprio in queste ore). Obiettivo dichiarato di questo nuovo quadro normativo è sì aumentare l’occupazione assoluta, ma anche e forse soprattutto far convergere nel “posto fisso”, pur se meno garantito come sostengono i critici del Jobs Act, una fetta consistente dell’attuale precariato. Nella relazione tecnica alla legge di Stabilità, che introduce la decontribuzione triennale per i nuovi contratti del 2015, il ministero dell’Economia aveva stimato che circa 360 mila contratti a termine o comunque atipici potessero trasformarsi in nuovi impieghi a tutele crescenti.
Dunque nelle prossime rilevazioni dall’Istat, la qualità dell’occupazione diventerà un elemento altrettanto importante della quantità. Anche se naturalmente il contesto economico internazionale ed italiano continuerà a condizionare gli andamenti del mercato del lavoro, come fa rilevare Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma. De Nardis nota che a gennaio il taglio dei contributi non ha prodotto risultati visibili e conclude che «per vedere effetti significativi sulle dinamiche del mercato del lavoro non bastano gli incentivi fiscali all’occupazione, occorre una ripresa dell’economia più robusta di quella attualmente scontata».