ROMA Fino ad ora rappresentavano quelli che, nel vasto mondo dei precari, in fin dei conti erano un passo avanti: avevano un contratto collettivo al quale fare riferimento per minimi retributivi e qualche tutela base. Con il decreto sul riordino dei contratti, varato in via preliminare dal consiglio dei ministri venerdì 20 febbraio, si ritrovano invece un passo indietro. Sono i co.co.pro del comma 2 dell’articolo 47 del suddetto provvedimento: gli esclusi dalla riforma oppure - se la si vede dalla parte dei datori di lavoro o anche se ci si attiene alla lettera della norma - i “salvati”. Anche dopo il primo gennaio 2016, pur trattandosi di «prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo» con orari e luoghi di lavoro definiti dal committente, questi contratti non saranno trasformati in lavoro subordinato. Sono collaborazioni che, così recita il decreto, «restano salve da quanto disposto dal comma 1».
E così, in quella linea di confine tra lavoro subordinato e autonomo che il governo ha tracciato con l’obiettivo di cancellare il precariato, in realtà resta ancora «un’area grigia». Ed è anche abbastanza vasta: si tratta di 160-180.000 precari che tali erano e tali resteranno visto che le nuove norme esplicitamente non li coinvolgono.
L’AREA GRIGIA
Quarantamila lavorano nei call center, e sono quei giovani che la maestria di Paolo Virzì per primo portò sul grande schermo - e quindi all’attenzione di un’Italia ancora poco attenta al mondo del precariato - con il film “Tutta la vita davanti”. Sono quei giovani che ci tormentano con le loro telefonate a tutte le ore per venderci i più svariati servizi e prodotti: vivono con un fisso di 450 euro al mese (cifra comunque parametrata al numero di contatti “utili”, secondo il contratto collettivo) con l’aggiunta di una cifra variabile legata spesso più alla fortuna di aver beccato il numero di telefono giusto che alle proprie capacità comunicative. Poi ci sono altri ventimila che si occupano di ricerche di mercato e sondaggi di opinione. Quando il governo stava preparando le nuove norme, le associazioni che rappresentano i call center hanno fatto presente che di fronte alla scelta di assumerli come dipendenti subordinati o farne a meno, non avrebbero avuto dubbi: ne avrebbero fatto a meno e si sarebbero rivolte all’estero, in paesi dove il costo del lavoro è più basso e la lingua italiana è comunque ben conosciuta. Un bluff? «No, delocalizzare sarebbe diventata una necessità» dice Paolo Sarzana, vicepresidente di Teleperformance, multinazionale del settore che opera in 50 Paesi, nonché vicepresidente di Assocontact. «Nel nostro settore è vitale legare lo stipendio ai risultati raggiunti, cosa non consentita da un contratto subordinato» spiega. Per i sindacati non è così. «Il governo ha perso l’ennesima occasione: si poteva creare un apposito settore, in modo da normare meglio le peculiarità di queste collaborazioni» dice Corrado Ezio Barachetti (Cgil).
LA DISCRIMINANTE
Ma anche se il problema riguardava soprattutto i lavoratori dei call center, per giustificarne l’esclusione dalla riforma si è dovuto trovare una discriminante più generale, individuata nell’esistenza per alcune tipologie di collaborazione di «accordi collettivi stipulati dalle confederazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» che «prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative di settore». Oltre ai call center, hanno un contratto collettivo i lavoratori del recupero crediti (circa 30.000) e almeno un terzo dei co.co.pro degli studi professionali (oltre 50.000). Poi ci sono quelli che lavorano nelle Organizzazioni non governative. Resta la possibilità di avvalersi di co.co.pro. anche per «le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali», come ad esempio i giornalisti.