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Data: 08/03/2015
Testata giornalistica: Il Centro
Solo 5 mamme su 10 riescono a lavorare. Per le donne stipendi più bassi degli uomini e meno chance di carriera

ROMA Il 21,5 per cento delle imprese italiane è al femminile. Tre su cinque sono nate negli ultimi 15 anni. Le donne imprenditrici incidono soprattutto in alcuni settori: servizi alla persona, sanità, assistenza sociale, ma anche turismo. Le donne al comando di un’azienda sono più numerose in Lombardia, nel Lazio e in Campania. La “maglia rosa”, in termini assoluti, va a Roma con 94.834 imprese femminili, seguita - ma a parecchia distanza - da Milano (59.617 aziende) e Napoli (56.297). Sono alcuni dati dell’ultimo report di Unioncamere. I numeri dell’imprenditoria femminile sono cresciuti: negli anni Novanta, dal 1990 al 1999 sono state 278.487 le imprese rosa registrare. Sono state 406.494 quelle dal 2010 al 2014. Ma sono numeri che devono fare i conti con un mondo del lavoro in cui resta, per le donne, il lungo elenco delle differenze. Al primo punto c’è lo stipendio. Gli uomini guadagnano il 7,3% in più delle donne (dati Openpolis). Secondo punto: la disoccupazione. Nel 2013 in Italia le donne disoccupate erano il 13,1% contro l’11,5% degli uomini. Terzo punto: essere mamme e lavoratrici in Italia è difficile, molto. Lavorano 5 mamme su 10, peggio al Sud dove la percentuale è del 37,4% (dati Confesercenti). «Le donne stanno dimostrando di saper conquistare spazi via via maggiori sia nel nostro tessuto imprenditoriale stando al comando di un’azienda sia nel mercato del lavoro. Ma il cammino è ancora lungo – spiega il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello – Per questo è necessario mettere a punto politiche mirate che ne accelerino il percorso, perché il contributo della forza lavoro femminile costituisce una risorsa fondamentale per lo sviluppo della nostra economia». Le imprese femminili sono 1 milione 302.054 in Italia. Unioncamere misura anche il tasso di femminilizzazione: l’incidenza delle imprenditrici sul tessuto produttivo. È alto in Molise, Basilicata e Abruzzo. Guardando alle province, è Benevento quella con il tasso più alto, dove il 30,49% delle imprese sono capitanate da donne, seguono Avellino e Chieti. Le province con il tasso di femminilizzazione più basso sono quelle di Milano, Monza e Brianza e Reggio Emilia. Il potenziale delle donne non è ancora sfruttato del tutto. Secondo i dati dell’Istat il tasso di occupazione femminile è fermo al 46%, contro una media europea del 58,6%. Nonostante la situazione di svantaggio, l’occupazione femminile ha mostrato in questi anni una maggiore tenuta, con un calo minore rispetto a quella maschile: meno 1,3% contro il meno 8,2% nel biennio 2013-2014. Ma il contributo principale di questa resistenza occupazionale delle donne arriva dalla presenza di lavoratrici straniere (la Regione con il maggior numero in assoluto di imprese femminili straniere sul totale delle aziende rosa è la Lombardia con 20.182. Ma è la Toscana quella con la quota percentuale più alta: 13,71%) e dalle occupate over 50. Penalizzate invece le donne che scelgono di avere figli. Su questo punto è intervenuto ieri il ministro della Salute Beatrice Lorenzin: «Abbiamo segnalazioni di tentativi in alcune situazioni di disincentivare l’utilizzo della maternità, esattamente in contrasto con i provvedimenti che abbiamo preso come Governo in particolare con l’ultimo decreto attuativo del Jobs Act che introduce una estensione della maternità anche sulla cura parentale. Su questo tema chiederò aiuto al ministero del Lavoro e proveremo a fare un’inchiesta». «Investire sulle donne non è solo questione di pari opportunità – dice Patrizia De Luise, presidente di Impresa Donne – ma è un’occasione di crescita». Un Paese, l’Italia, che per le donne propone un percorso lavorativo difficile. «L’Italia è al 124esimo posto su 126 per quanto riguarda le chance di carriera – ha sottolinea il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini – Nelle università, negli ultimi 10 anni, 70mila studenti hanno interrotto l’università e più della metà è donna, ragazze che non hanno sentito un Paese credere in loro».

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