Chi ha paura delle donne? È arrivato il momento di rompere il tabù che imperversa nel nostro paese, dove la questione delle pari opportunità e del superamento delle diseguaglianze tra uomini e donne è ampiamente occultata. Il governo italiano si è perfino dimenticato di aver ratificato la Convenzione di Istanbul, che dal 1° agosto 2014 rendeva obbligatoria l'applicazione dei principi e delle normative contenuti in quel testo, definito storico, che al primo articolo recita '...contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi...' . Ma il silenzio che è seguito dimostra che il tema non rientra nell'agenda politica italiana.
Eppure occupazione e redditi delle donne sono da tempo i principali problemi, seguiti, ma non per ordine di importanza, dalle troppe diseguaglianze acuite da questa lunga crisi. E, nonostante leggi nazionali e internazionali prevedano parità di trattamento e di retribuzione, nella classifica mondiale della parità tra uomini e donne restiamo tra i paesi con minore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e tra quelli con le maggiori disparità salariali. Con l'effetto di un maggior divario pensionistico a sfavore delle donne, a cui non viene garantito il diritto all'autonomia economica a conclusione della loro vita lavorativa.
Quello dell'Italia è un grave ritardo, non esclusivamente di ordine culturale, che penalizza il genere femminile e l'intera economia. Lo confermano studi, ricerche e statistiche nazionali e internazionali, il più recente dei quali è l'ultimo studio del Fmi, che quantifica i danni del sessismo nel mondo in 9.000 miliardi di dollari all’anno, a causa di restrizioni legali e della parità di genere ancora lontana da raggiungere. Una discriminazione contro il genere femminile che all'Italia fa perdere più del 15% della ricchezza potenziale.
Dagli Stati Uniti è partita in questi giorni una vera e propria offensiva perché la partecipazione paritaria delle donne al mercato del lavoro, oltre che una battaglia di equità e democrazia, diventi prioritaria per la crescita. Il “tam tam” dell’equal pay lanciato da Barack Obama mobilita attori, politici, gente comune. Sul fronte europeo, negli ultimi anni, Francia, Belgio, Austria e Portogallo si stanno muovendo verso la parità retributiva con l'approvazione di apposite leggi che spaziano dal rafforzamento dei controlli all’obbligo periodico di presentazione di analisi comparative tali da monitorare quella che in azienda è la struttura salariale.
La situazione italiana è una delle più contraddittorie: il formidabile avanzamento delle donne in politica – il governo è composto al 50% da donne, che nel Parlamento sono il 30% – è speculare all'aumento delle disuguaglianze economiche e sociali, al peggioramento sul piano occupazionale e retributivo, che penalizza la vita materiale delle donne che lavorano. E di quelle che non lavorano più: le pensionate, spesso costrette dalla crisi, dallo svuotamento del welfare e dalla precarietà dei figli a svolgere il ruolo improprio di ammortizzatore sociale.
La politica finge di non sapere che la mancanza di servizi è un freno all’occupazione femminile e allo sviluppo. Le donne sono penalizzate anche dalla maternità, come se non avesse un valore sociale. Soltanto 43 su 100 mantengono il lavoro dopo la nascita di un figlio, che insieme al lavoro di cura troppo spesso favorisce la loro uscita dal mercato del lavoro. Le aziende devono sapere che la diversità è una risorsa, bisogna solamente essere capaci di gestirla.
Con i decreti attuativi, il Jobs Act è entrato nel vivo. Presentato come una misura a favore dei giovani e delle donne, è in realtà privo di un'analisi di genere e iniquo sul piano della parità e dell'equità. È il mantenimento delle differenze e non la lotta alla precarietà. I provvedimenti del governo hanno complessivamente saccheggiato il diritto del lavoro e per questo la Cgil presenterà una proposta di legge per un nuovo Statuto dei lavoratori, per estendere tutele e diritti a tutti i lavoratori e lavoratrici, indipendentemente dalla tipologia contrattuale.
Il 9 marzo a New York si apre la 59a sessione della Commissione sullo stato delle donne delle Nazioni Unite, che valuterà i progressi compiuti dalla Conferenza mondiale di Pechino nel 1995, in cui si stabilì la necessità di una verifica ogni cinque anni rispetto all'attuazione del Programma d'azione fondato sue tre pilastri: genere e differenza, empowerment, mainstreaming. Ovvero: guardare il mondo con gli occhi delle donne.
La Conferenza di Pechino ha rappresentato una pietra miliare nel riconoscimento dei diritti umani delle donne. Venti anni dopo, attraverso i rapporti quinquennali dei governi, si esamineranno i traguardi raggiunti rispetto agli obiettivi strategici delle 12 aree critiche individuate dalla Piattaforma di Pechino. Da allora in tutto il mondo sono state implementate nuove leggi, prodotte ampie documentazioni statistiche su discriminazioni e disuguaglianze, sono proliferate reti e associazioni di donne finalizzate al raggiungimento della parità di genere. Ma nessun paese ha ancora portato a termine gli impegni assunti e le condizioni di vita materiale di due terzi delle donne nel mondo non sono cambiate: guadagnano meno degli uomini e la loro occupazione è meno qualificata.
L'appuntamento di New York dovrebbe essere dunque l'occasione per rinnovare la volontà politica e l’impegno di tutti i governi verso un cambiamento, che tarda troppo ad arrivare. Ci sono voluti secoli prima che i diritti delle donne fossero riconosciuti, almeno teoricamente, come diritti umani universali. Il problema non si risolve lasciando totale libertà al mercato, è necessaria la volontà politica e una sensibilità di genere di tutte le parti sociali.
Per dare significato alla giornata dell'8 Marzo dobbiamo proseguire la nostra mobilitazione perché il governo metta in campo misure e investimenti che affrontino seriamente un problema non delle donne, ma di democrazia e di pesanti vincoli allo sviluppo di tutto il paese. Che vanno oltre l'8 Marzo, perché per dirla con le parole di Amartya Sen: “Il sessismo ci impoverisce tutti”.