ROMA Non sarà magari una passeggiata, ma qualcosa che le somiglia sì. Si vota stamane alla Camera la riforma costituzionale, e le premesse politiche, e quel che più conta numeriche, sono tutte a favore per un sì largo al ddl governativo. Le opposizioni hanno abbandonato l’Aventino. Tutte, tranne i cinquestelle che rimarranno fuori dall’aula perché non vogliono avere a che fare con quella che hanno definito una «schiforma». Rientrano anche i forzisti di Renato Brunetta, ma per alzare disco rosso rossissimo alla riforma, dopo che Silvio Berlusconi ha annunciato la nuova linea oppositiva a base di «Renzi ha tradito i patti, votiamo no». Il rientro forzista è a rischio per loro, nel senso che voci insistenti di Palazzo danno sul piede del dissenso, cioè a favore del ddl renziano, una ventina di deputati di osservanza verdiniana, che però, essendo il voto palese, al massimo potrà esprimersi tramite assenza.
I NUMERI
Ma quel che più conta, ai fini dei numeri oltre che politicamente, è che tutte le minoranze interne del Pd hanno deciso di rientrare e di votare a favore. Lo ha annunciato in aula Andrea Giorgis a nome dei bersaniani, lo ha detto ai giornalisti il capogruppo Roberto Speranza, lo hanno confermato altri bersaniani non barricaderi come Nico Stumpo, o come l’ex dalemiano Danilo Leva. Un rientro sofferto, che ha avuto bisogno di più riunioni e confronti, sicché ancora a tarda sera non era stato deciso l’atteggiamento unanime da tenere. «Dobbiamo dare un segnale». Che forse non ci sarà. La situazione interna ai dissidenti sembra tornata allo status quo ante, a prima della fiammata oppositiva impressa da Pierluigi Bersani con il suo «non ci sto, non voto le riforme, non voto l’Italicum se non cambia»: alla fine, dovrebbero essere 5-6, compresi i due civatiani, coloro in quali non daranno disco verde, non si capisce se uscendo dall’aula o votando apertamente no. Lo ha annunciato il bersaniano Davide Zoggia al termine dell’ennesima riunione: «Fassina, D’Attorre, io stesso e qualcun altro non voteremo, sarà un dissenso contenuto, ma è ancora da vedere». Nelle minoranze si è consumato un altro braccio di ferro, e questa volta le posizioni più critiche sono finite all’angolo.
E’ stato il capogruppo Speranza a dare la spinta maggiore, dopo che era stato a sua volta spinto, suo malgrado, sulle barricate dal pressing di Bersani. «Non si può continuare così, dobbiamo ancora decidere come votare e già appaiono dichiarazioni polemiche e roboanti, no, così non si può andare avanti», si è sfogato il capogruppo con i suoi. Il riferimento era ad alcune dichiarazioni di Gotor, Civati, Cuperlo, che oscillavano tra il no aperto, il ni e il non possumus. Al punto che è di fatto saltato l’appuntamento del 21 marzo che doveva segnare la riunificazione delle minoranze interne del Pd, che invece rimarranno ognuna per sè. Si terrà la convention di Area riformista a Bologna sabato prossimo, lì Speranza alla presenza di Bersani farà la sua brava relazione, ma poi basta, nessun seguito. L’unificazione può attendere. La minoranza dialogante si è attestata su una linea al futuribile: «Diamo oggi l’ok alla riforma del Senato, ma chiederemo modifiche all’Italicum, specie ora che non c’è più il patto del Nazareno». Ma finora Renzi di modifiche non vuol sentir parlare, se ne parlerà dopo le regionali.