PESCARA Torna indietro, Luciano D’Alfonso, a quando nel 2009 inviò una lettera ai cittadini di Pescara in cui spiegava il perché delle dimissioni da sindaco dopo l’arresto nel dicembre 2008. Nel giorno in cui il procuratore generale dell’Aquila chiede la sua assoluzione, il presidente della Regione pubblica su Facebook la lettera che seguì il suo arresto scrollandosi in questa maniera dalla spalle gli anni dell’inchiesta che nel 2008 aveva interrotto il suo percorso politico e nel 2013 l’aveva fatto rinascere con l’assoluzione piena in primo grado. Ieri, il secondo tempo del processo alla Corte d’appello dell’Aquila si è aperto con un’altra conferma della fragilità dell’accusa: il pg Ettore Picardi non ha raccolto l’eredità del pm Gennaro Varone ma, anzi, l’ha rimandata al mittente chiedendo di assolvere D’Alfonso e altri 16 tra cui gli imprenditori Carlo e Alfonso Toto. Il pg: assolvere d’Alfonso e condannare per Dezio. «Condivido la sentenza di primo grado», ha detto il procuratore generale ricordando l’assoluzione di massa di 23 imputati che nel febbraio 2013 sancì che al Comune di Pescara non c’era stata nessuna tangente e facendo crollare l’impianto accusatorio del primo maxi-processo per tangenti. La sentenza bis per D’Alfonso, Toto e gli altri arriverà il 30 marzo, giorno in cui prenderanno la parola anche gli avvocati di D’Alfonso e Toto, Giuliano Milia e Augusto La Morgia, ma la procura dell’Aquila, ieri, si è allineata al verdetto dei giudici di primo grado e non al pm. Eppure un ribaltone, durante l’udienza di ieri, c’è stato perché per Guido Dezio, il dirigente del Comune di Pescara da sempre vicino a D’Alfonso, il procuratore generale non ha chiesto la conferma dell’assoluzione per tutti i reati bensì la condanna a due anni e sei mesi per l’episodio che vedeva il dirigente accusato di tentata concussione per una presunta tangente da 20 mila euro per la vicenda del bar del tribunale. Per i 18 la sentenza da parte del collegio presieduto da Luigi Catelli affiancato da Aldo Manfredi e Armanda Servino arriverà il 30 marzo. «Considerazioni inaccettabili sul collegio di primo grado». L’udienza aquilana si è aperta con una breve introduzione del giudice a latere Manfredi che ha strigliato il pm Varone, autore di un appello senza remore in cui reputò il collegio pescarese presieduto da Antonella Di Carlo privo, come scrisse, di «una mente allenata e di talento nel comprendere la verità». Sei reati prescritti: la corruzione dietro la villa. «A prescindere dalle considerazioni inaccettabili sul collegio», ha detto Manfredi, «il pm Varone ripropone la propria tesi». Quindi, la parola è andata al pg che ha elencato i «tre punti» che, a suo parere, erano rimasti ancora in «vita» dell’inchiesta tra cui la vicenda della villa di Lettomanoppello di D’Alfonso, cardine dell’accusa che aveva detto che la casa era stata comprata da D’Alfonso a prezzi stracciati dall’imprenditore Rosario Cardinale. Ma il pg ha reputato che quel reato di corruzione è prescritto, cancellato dal tempo insieme ad altri cinque capi d’imputazione tra cui altre tre corruzioni, una concussione e un abuso che chiamano in causa anche la vicenda dei cimiteri, ancora uno scambio, «una contropartita» tra l’ex sindaco e gli imprenditori De Cesaris. Prescrizioni che fanno dire al Movimento 5 Stelle Abruzzo: «D’Alfonso vi rinunci e vada a processo» E’ franata, invece, tutta l’impalcatura accusatoria, quella che per anni aveva parlato di un rapporto pieno di ombre tra D’Alfonso e i Toto, di viaggi e voli gratis per l’ex sindaco in cambio dell’appalto per l’area di risulta. E, invece, per il pg «quell’appalto è stato regolare, non ha avuto nulla di illecito ed è stato accertato il rapporto di amicizia tra Toto e D’Alfonso»: un’amicizia, quindi, senza nulla in cambio. D’Alfonso era stato l’ideatore di una «squadra d’azione» per arricchirsi? No, ha detto il procuratore generale, perché i «fatti sono scollegati tra di loro, non c’era alcun modus operandi deliberato», chiedendo l’assoluzione per l’associazione e, complessivamente, per altri 19 capi d’imputazione. Dezio e la presunta tangente per il bar. «C’è stata una pressione indebita», ha detto il pg ricordando uno dei capitoli più incisivi dell’inchiesta, quello che riguarda la tentata concussione secondo cui Dezio avrebbe chiesto 20 mila euro a Norma Di Pentima, titolare del bar del tribunale, in cambio dell’aggiudicazione definitiva del servizio. Il dirigente del Comune era stato assolto in primo grado da questo reato così come dagli altri ma, nell’udienza di ieri, il pg è tornato a chiedere la condanna di Dezio a due anni e sei mesi. La sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila arriverà il 30 marzo.