L’AQUILA Il teorema sul sistema Pescara, tangenti per i grandi appalti del Comune, che vede sul banco degli imputati l’ex sindaco e attuale governatore d’Abruzzo, Luciano D'Alfonso, e altri 23 imputati, frana anche in appello. Lo stesso Procuratore generale, Ettore Picardi, che nel processo di secondo grado sostiene l’accusa, nella sua requisitoria di ieri ha sposato in larghissima parte la tesi assolutoria dei giudici di primo grado, aprendo parentesi soltanto per un paio di episodi ormai coperti dalla prescrizione e chiedendo la condanna soltanto per Guido Dezio. L’ex braccio destro di D’Alfonso, secondo l’accusa dovrebbe essere condannato a due anni e mezzo per tentata concussione. Episodio peraltro avulso dall’intelaiatura processuale: e cioè la questione dell’assegnazione del bar all’interno del tribunale pescarese. Per D’Alfonso, che condivide il capo di imputazione, il Pg ha invece chiesto l’assoluzione perché a suo carico «ci sarebbero soltanto congetture». Al tirar delle somme, dello scandalo che a Pescara provocò un capovolgimento politico distruggendo la vita familiare e professionale di molti imputati, dovrebbe essere soltanto Dezio. E per uno soltanto dei tanti passaggi amministrativi finiti nel tritacarne dell’inchiesta.
«LA LISTA NON ESISTE»
Ma secondo il Pg Picardi, anche la famosa lista Dezio (l’elenco di imprenditori e cifre che secondo il Pm di primo grado Varone avrebbe rappresentato la prova delle tangenti) in sostanza non esiste. «Concordo con la sentenza di primo grado - ha detto il Pg -: si tratta soltanto di ipotesi. Dazioni fatte semmai per compiacere D’Alfonso e non per il partito». E così, con due parole, l’accusa spazza via l’architrave accusatoria del sistema Pescara. Fuori di ogni ipotesi associativa, oltre alla vicenda Dezio resterebbero in piedi soltanto due questioni: l’appalto dei cimiteri, che avrebbe a suo dire avvantaggiato l’impresa De Cesaris, e la realizzazione della villa di D’Alfonso a Lettomanoppello. Il vantaggio, in questo caso, sarebbe stato per il costruttore Rosario Cardinale «che aveva forse aspettative maggiori». Ma entrambi gli episodi, per i quali l’accusa ipotizza la responsabilità dell’ex sindaco, sono ormai coperti dalla prescrizione. «Per il resto - ha aggiunto Picardi - non posso che condividere la sentenza di primo grado». E questo vale per tutto e per tutti gli imputati. A partire da Carlo e Alfonso Toto, per i quali «il tribunale nella sua sentenza smentisce ogni irregolarità nella procedura dell’appalto».
«SUI SOLDI SOLO IPOTESI»
«Il processo - ha proseguito l’accusa - ha dimostrato che la conoscenza e le frequentazioni con D’Alfonso sono pregresse. Giuridicamente, dalla lettura degli atti, non riesco a dissociarmi dalla sentenza. Sono rapporti che non si sono accentrati in particolari momenti della vita amministrativa del Comune di Pescara». Anche le accuse di Varone contro D’Alfonso sulle questioni patrimoniali sono state liquidate con poche battute. «Vivere senza ritirare soldi - ha detto - potrebbe derivare da altre questioni non necessariamente legate a questo processo: restano soltanto ipotesi e sul punto concordo con la sentenza di primo grado». E questo vale anche per i viaggi in aereo, a Milano, per Toyo Ito e via dicendo. Sull’associazione per delinquere, reato che Varone ha cercato di far rivivere nei motivi d’appello, il Pg è stato chiaro: «I reati scopo che rappresentano l’intelaiatura dell’associazione vanno dimostrati. Qui invece esistono solo fatti scollegati fra loro che non dimostrano un modus operandi». In apertura di udienza il giudice relatore Manfredi ha ricostruito brevemente il processo partendo da questa affermazione: «A prescindere dalle considerazioni inaccettabili sul collegio di primo grado, Varone ripropone la sua tesi». Il processo riprenderà il 30 marzo prossimo con le arringhe conclusive dei legali di D’Alfonso e Toto e, a seguire, la sentenza.