PESCARA Non ha mai partecipato a un’udienza restando appartato nelle fasi più delicate del processo e in disparte anche nei giorni di gioia, come quello della prima assoluzione del febbraio 2013 che aveva sancito che tra Carlo Toto e Luciano D’Alfonso non c’era stato nessuno scambio. La Corte d’Appello ha scagionato ancora Toto e il figlio Alfonso dall’accusa di corruzione e di turbativa d’asta e, secondo il suo stile, Toto non è arrivato in aula lasciando al suo avvocato Augusto La Morgia il compito di comunicargli l’esito favorevole. Ma cosa accade quando un imprenditore di livello internazionale finisce in un’inchiesta? «Otto anni fa, in quei giorni dell'inchiesta», racconta Toto, «eravamo impegnati in operazioni importanti sul piano nazionale ed europeo. Una su tutte la vicenda della privatizzazione dell’Alitalia perché, allora come oggi, abbiamo società all’estero e lavoriamo con partner internazionali, a cominciare da primari istituti finanziari. Non è quindi un caso che i maggiori problemi all’epoca e nei mesi successivi», ricorda l’imprenditore, «li abbiamo avuti più su Tokyo che non a Pescara, più a Londra che non a Chieti. Non è una missione facile», aggiunge, «spiegare a partner internazionali che hai agito e agisci nella legalità e non hai fatto nulla di illecito». E’ la reputazione quella che un imprenditore deve difendere, combattendo anche i luoghi comuni che all’estero si hanno dell’Italia perché, come spiega ancora Toto, «usare termini come “cupola” per descrivere un’amicizia, all’estero più che in Italia, ha effetti devastanti sulla reputazione e sulla credibilità di un’impresa e di una persona». Viaggi e regali in cambio dell’appalto per l’area di risulta: era stata questa l’accusa che aveva fatto finire i Toto nell’inchiesta, un’accusa che oggi l’imprenditore reputa «incredibile», «così enorme e distante dal nostro operato concreto che dalla nostra stessa volontà». Ma Toto, presidente del gruppo che costruisce grandi infrastrutture, si lascia andare anche a una riflessione più ampia «su’inchiesta locale» che sembrava racchiudere in sè «tutti i vizi di un Paese. E non era vero», dice, «ma questo allora passò e fu metabolizzato in Italia come all’estero. Il problema è che, poi, sul piano locale la vicenda viene ancora seguita e su quello nazionale un’assoluzione non ha purtroppo nessun effetto paragonabile a quello di una cattiva notizia». Dopo anni «trascorsi con tranquillità», l’imprenditore sente almeno di aver recuperato «una personale e intima fiducia. Ecco perché», è la sua speranza, «vorrei che questa nostra vicenda servisse a rivedere un certo modo di procedere. Fermo restando il diritto dovere degli inquirenti a fare il proprio lavoro, la nostra vicenda spero che serva a valutare, a scegliere e a pesare il linguaggio da usare in questi casi oltre che i riferimenti a codici e leggi». Ma c’è un altro nome che, più di altri, in questi anni è risuonato nelle aule di giustizia ed è quello dell’ex braccio di destro di D’Alfonso Guido Dezio, oggi dirigente comunale. Dezio, assolto in primo grado, era stato l’unico per cui il procuratore generale Ettore Picardi aveva chiesto la condanna a due anni e sei mesi per tentata concussione. E, invece, la Corte ha assolto dal reato – riqualificato in corruzione – anche Dezio che, ieri, era in aula alla lettura della sentenza. «È finito un incubo durato anni molto pesanti, pieni di sofferenza per una vicenda che ha radici antiche», ha detto il dirigente del Comune. «Gioisco per aver riconquistato la piena libertà. Non mi sono fatto domande sulla richiesta del pg», ha detto ancora. «Come in primo grado ho sempre sostenuto di credere nelle istituzioni e alla fine la verità viene a galla. Oggi è finita, ma dopo anni di sofferenze».