ROMA - Che cosa diventerà L'Aquila quando - ma chissà quando - finirà la ricostruzione è in buona parte scritto in quel che si è fatto subito dopo il terremoto del 6 aprile 2009 (309 vittime, oltre 1600 feriti e circa 65mila sfollati). Lentamente, senza che i riflettori l'abbaglino, la ricostruzione va avanti, ma per avere un'idea di che cosa sarà il capoluogo abruzzese al termine di questo lungo processo, bisogna tornare alle scelte di quelle settimane, quando si decise come impostare non solo l'emergenza, ma anche i passaggi successivi: quelli, appunto, della città che verrà. E mentre nei cantieri si lavora, cresce l'allarme di molti urbanisti.
"Oggi non esiste un'idea di città, un progetto complessivo che riguardi cosa deve essere L'Aquila nel futuro", dice Georg Frisch, urbanista, che pochi mesi dopo il sisma, curò un volume scritto a più mani dagli esponenti del Comitatus Aquilanus, uno dei primi comitati di cittadini formatisi all'indomani della tragedia. S'intitolava "L'Aquila. Non si uccide così anche una città?". Sotto accusa venivano messe due operazioni: i 19 nuovi insediamenti, le cosiddette new town (che tutto erano salvo che new town), e l'abbandono del centro storico. Spiega Frisch, che fino a pochi giorni fa è stato fra i coordinatori dell'Ufficio speciale per la ricostruzione, una struttura promossa da Fabrizio Barca, allora ministro della Coesione territoriale: "A sei anni di distanza quell'impostazione fa sentire la sua pesante eredità, condiziona gravemente il disegno di L'Aquila a venire: il problema cruciale è che la ricostruzione è stata trattata come un affare edilizio, senza considerare che la città ha un assetto diverso dalla somma delle sue case. Inoltre si stanno ricostruendo gli edifici anni Cinquanta e Sessanta adottando il criterio del "dov'era, com'era" e riproducendo esattamente quartieri che si sarebbe potuto migliorare, abbassando l'altezza dei palazzi o attrezzando spazi pubblici. Il "dov'era, com'era" andava limitato al centro storico. Purtroppo non si è ragionato in termini urbanistici, ma, appunto, edilizi. Una città senza spazio pubblico non è una città".
Che cosa ne sarà, infatti, di quei 19 insediamenti costati oltre 800 milioni, sparpagliati in un territorio vastissimo, mal collegati fra loro e con il centro, solo case e niente servizi, che complessivamente occupano quasi 160 ettari con 4.500 appartamenti in 185 palazzine dove vivono 15 mila persone? Fu battezzato Progetto Case (Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili): dovevano dare una sistemazione a un terzo dei senzatetto aquilani, tutte persone provenienti da edifici gravemente inagibili. E che cosa ne sarà, inoltre, delle superfici sulle quali sono stati sistemati i 1.200 Map (Moduli abitativi provvisori), case prefabbricate che insieme ai Musp (gli edifici scolastici, sempre prefabbricati) occupano oltre 100 ettari? E che dire, ancora, delle circa 2.500 "casette" - le chiamarono così - che un'ordinanza del sindaco Massimo Cialente permetteva di costruire a chiunque avesse un terreno agricolo, che dovevano essere demolite e che invece sono ancora lì?
Tutto questo patrimonio edilizio, queste aree urbanizzate hanno consumato una quantità di suolo impressionante, 500 ettari, secondo i calcoli di Antonio Perrotti, anche lui urbanista, fra i promotori del Comitatus Aquilanus. 500 ettari che, segnalò fin d'allora il Comitatus Aquilanus, avrebbero cambiato la forma della città senza alcun progetto organico, accentuando un problema che L'Aquila già aveva, quello di una marcata e costosa dispersione abitativa. Fra il nuovo insediamento di Assergi, sotto il Gran Sasso, e quello di Cese di Preturo corrono più di dieci chilometri per una città che conta 60 mila abitanti. "La grande sconfitta è l'urbanistica", spiega Vezio De Lucia, che vanta una grande esperienza di pianificazione e anche di amministratore pubblico e che fu tra i primi a denunciare i guasti della ricostruzione. "Quella vicenda ha confermato la filosofia che domina la scena negli ultimi decenni: la casa che sostituisce la città. La conseguenza è che L'Aquila non sarà mai più la stessa. Intendiamoci, nessuno può pensare che una città, come ogni essere vivente, non debba trasformarsi. Il fatto è che L'Aquila rischia di non essere più una città, ma solo un arcipelago di periferie".
Nei programmi del Comune, una volta liberati da coloro che avranno ricostruita la casa, il 30 per cento degli appartamenti del Progetto Case dovrebbe essere destinato a residenze per studenti, il 70 ritornare nella disponibilità dell'amministrazione per farne alloggi a canone concordato oppure per altri usi. I progetti li racconta Daniele Iacovone, al quale il Comune ha affidato una consulenza per il nuovo piano regolatore della città. Non è la prima volta che, dal terremoto in poi, si avvia un documento urbanistico di vasta portata. Nel 2012 venne approvato un piano di ricostruzione del solo centro storico, obbligatorio per legge, che comportò molti mesi di un lavoro coordinato sempre da Iacovone, ma che di fatto si è rivelato inutile: "L'80 per cento degli interventi che lì prevedevamo erano già contemplati dal piano regolatore ancora vigente, che risaliva al 1975 e che consentiva nel centro storico interventi di restauro conservativo e di risanamento statico, esattamente quelli che si sarebbero potuti praticare all'indomani del sisma per permettere a molte persone di rientrare nelle proprie case dopo alcuni mesi dal sisma", ammette Iacovone.
Ma la strada intrapresa nei giorni dell'emergenza fu un'altra. E le conseguenze si vedono ora. Collegare fra loro i 19 nuovi insediamenti, parti di una città disperse nella campagna, è impresa complicatissima. E assai onerosa, sostiene Perrotti: "Ognuno di questi insediamenti non ha le quantità minime di abitanti per rendere compatibile finanziariamente un sistema di trasporto pubblico che li raggiunga e li connetta fra loro e con il centro della città. L'Aquila del domani sarà una città con più di una novantina di frazioni". Inoltre restano da definire le destinazioni di quei 4.500 appartamenti e anche i tempi. "Come si può pensare", si domanda Frisch, "che gli studenti abitino in luoghi così distanti dalle sedi universitarie, senza un sistema di trasporto pubblico efficiente, in quartieri che non sono quartieri perché non hanno alcun servizio, alcuno spazio pubblico?".
Un'altra incognita pesa poi sul futuro dell'Aquila. Il nuovo piano regolatore, sostiene Iacovone, non contempla nuove espansioni della città né consumo di altro suolo. Ma dal passato incombono diverse, pesanti eredità: 15 mila stanze previste dal vecchio piano regolatore e mai realizzate potrebbero aver dato luogo a dei diritti che i proprietari delle aree interessate da quelle edificazioni sarebbero in grado di reclamare. La questione è molto controversa. Tanti giuristi sostengono che quelle previsioni possono essere annullate da un nuovo piano regolatore. Altri insistono: no, sono diritti e possono dar adito a costosissimi contenziosi con l'amministrazione comunale. E non è finita: il Comune potrebbe dichiarare edificabili altri 330 ettari pur di non pagare salatissimi indennizzi a chi si era visto vincolare un area come zona verde o destinata a servizi (i vincoli, dopo 5 anni, sono poi scaduti).
L'Aquila vive dunque un drammatico paradosso, insiste Frisch. Le case che ci sono sono sufficienti ad ospitare gli attuali residenti. Altre non ne servono assolutamente, sarebbero solo uno spreco o un regalo a chi le costruisce. Quel che serve è la città.
Sisma L'Aquila, l'amarezza del sindaco: "Viviamo sospesi"
Il sindaco: "I soldi ci sono, serve uno scatto"
L'AQUILA - "L'Aquila, se il governo mi dà una mano, se mi danno il personale che serve per analizzare i progetti, nel 2017 sarà uno dei centri storici più belli d'Italia". Il sindaco del capoluogo abruzzese, devastato dal sisma del 6 aprile 2009 e ancora ferito, non ha dubbi: L'Aquila ripartirà entro due anni, almeno l'asse centrale. Per ora, però, il cuore della città è ancora morto: alle 11 di una mattina infrasettimanale, il Corso principale, che prima del 6 aprile 2009 brulicava di cittadini, è vuoto. Gli unici rumori che si sentono sono quelli dei cantieri aperti e le uniche persone che si incrociano sono gli operai. Il primo cittadino saluta tutti quelli che incontra e mentre descrive gli sforzi che la città ha dovuto affrontare negli ultimi sei anni, mostra con soddisfazione i palazzi appena ristrutturati lungo l'arteria principale. Ma si è perso tempo. Troppo. E lui, ammette, se ne è accorto tardi: "Solo qualche mese fa mi sono reso conto che quella struttura organizzata da Fabrizio Barca (ministro per la Coesione territoriale nel governo Monti, ndr) non poteva funzionare. I progetti presentati non sarebbero stati analizzati prima del 2020/2021". Un tempo infinito per gli aquilani che, dice Cialente, "vivono una vita sospesa".
"Correre, correre e ancora correre". Lo ripete come un mantra il primo cittadino, che ammette di aver commesso un grande errore: non opporsi con decisione all'immobilismo che, per almeno tre anni, ha bloccato l'inizio della ricostruzione. Se la situazione non cambia, c'è il rischio che la città si svuoti, che i giovani, stanchi di aspettare di tornare alla normalità, l'abbandonino per sempre. "Adesso devono partire tutti i cantieri: non mi interessa se si tratta di palazzi vincolati dalla Sovrintendenza dei Beni culturali o no. Di qui a 24 mesi io devo aver finito". E detta i tempi: anche per gli edifici più 'complessi', le imprese non possono impiegare più di due anni. Tempi che però, fino ad ora, non sono stati rispettati: "Il nostro cronoprogramma è saltato - insiste Cialente - prima per mancanza di soldi, adesso per mancanza di gente".
Sono settemila, spiega, i progetti pronti, in attesa di approvazione. Ma perché questa lentezza? E di chi è la responsabilità? I soldi, che fino a qualche tempo fa erano pochi per garantire l'avvio dei lavori, ora ci sono. "Il governo Renzi ha trovato sei miliardi spalmati in sei anni, ma è stata modificata la legge per l'approvazione dei progetti". Quindi il problema attuale sono i troppi passaggi burocratici dice il sindaco: "Mi hanno chiesto per l'ennesima volta di fare una revisione delle persone che ci servono. Stiamo procedendo con un metodo tipo catena di montaggio. Quante persone servono per fare questo? Quante persone servono per fare quell'altro?". Per non parlare della ricostruzione pubblica: "Palazzo Margherita (sede storica del Comune, ndr) doveva essere partito da un anno. Lì - ammette ancora - un po' non arriviamo noi, un po' il provveditorato".
Sisma L'Aquila, sfrattato dal centro muore anche il mercato
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Il cuore economico deve ricominciare a pulsare, insiste Cialente, mentre indica le antiche sedi dei ristoranti e dei negozi che frequentava da ragazzo: "Se non tornano i negozi, qui al centro, è impossibile tornare a vivere. Ecco il perché di questa mia ansia di fare in fretta. I pochi che sono tornati, sono disperati. Manca la città: questo terremoto è diverso dagli altri. Il paragone che faccio è con il corpo umano - dice il sindaco che di professione è medico - qui si è rotta la testa, non un braccio o una gamba, arti senza i quali puoi continuare a vivere. Qui manca la parte più importante. Tanti commercianti hanno trovato una sistemazione in periferia o nei centri commerciali, ma non è la stessa cosa".
"La colpa è sempre del sindaco: se le cose vanno bene, sono dovute, se no, è colpa del sindaco o degli assessori - si difende Cialente, consapevole dei malumori di molti, soprattutto di quanti, a partire da aprile non usufruiscono più delle forme previste per l'assistenza onerosa alla popolazione e dovranno spostarsi nel Progetto Case - Non è giusto continuare a spendere soldi pubblici, quando ci sono abitazioni libere per ospitare tutti". Cialente è stato contento per la partecipazione del presidente della Repubblica al Concerto per L'Aquila che si è svolto al Quirinale qualche giorno fa, ma è certo che il premier Matteo Renzi non verrà: "Il presidente del Consiglio non viene finché le cose non stanno a posto, perché basta un solo fischio perché i giornali il giorno dopo titolino 'Renzi fischiato all'Aquila'. E non sarebbe giusto. Questo governo per la prima volta ha trovato i soldi, un miliardo e due per quest'anno. L'errore è che se non ci dà il personale è come non avere fondi".
Le mani della camorra sui cantieri
L' AQUILA - Nella città del terremoto può succedere che la polizia stradale sia utilizzata come scorta per i mezzi edili delle aziende vicine al clan dei casalesi. Occorreva solo una telefonata ad Alfonso Di Tella - imprenditore casertano accusato dalla procura dell'Aquila di essere al servizio della camorra - per far accompagnare dalle volanti, gli escavatori della sua azienda lungo le strade della città distrutta dal sisma. E i mezzi erano sempre senza targa e senza assicurazione. A provvedere al "servizio speciale" era un agente della polizia stradale, Maurizio Ciancarella, ora indagato. Scrive la Guardia di Finanza in una informativa agli atti dell'inchiesta: "Un servizio che l'agente di polizia Ciancarella "offriva" alla famiglia Di Tella era l'ausilio fornito ogni volta che gli imprenditori casertani avevano la necessità di spostare i mezzi edili (mini-escavatore, tipo "bobcat") non targati e non assicurati da un cantiere all'altro". In cambio di questi e altri aiuti il poliziotto otteneva lavori edili gratuiti e altri benefici.
Le Fiamme Gialle nel documento ricostruiscono anche la strategia dei rapporti "istituzionali" dell'imprenditore: " Le indagini tecniche dimostravano come il Di Tella provvedesse a fornire ai suoi tanti 'amici istituzionali' consulenze su lavori di ristrutturazione, materiale edile e manodopera, cercando di fare fronte alle richieste di assunzione che gli pervenivano dai predetti. A fronte di tali richieste Di Tella - scrive ancora la Finanza dell'Aquila - acquisiva un 'beneplacito sociale' che lo poneva nella posizione di 'creditore' nei confronti di coloro ai quali aveva offerto il suo contributo. A dimostrazione di quanto appena enunciato, basti pensare che Di Tella e i suoi figli quando venivano sottoposti ad un semplice controllo stradale, non esitavano a contattare i propri 'amici' i quali, a loro volta, si attivavano immediatamente, spendendo il proprio nome o contattando direttamente la pattuglia che stava eseguendo il controllo".
Nella città del terremoto, anche il comandante dei carabinieri pretendeva le tangenti. Ora che un imprenditore ha confessato, il colonnello Savino Guarino, non può mettere piede all'Aquila. Per lui la città è vietata, almeno fino alla fine delle indagini. Il tribunale, infatti, ha disposto come misura cautelare il "divieto di dimora" mentre l'Arma ha provveduto a sospenderlo. La "mazzetta" per il colonnello - accusato di concussione e da pochi mesi trasferito ad altro incarico - era un appartamento. Un immobile da comprare a Roma, zona Eur. Per acquistare quella casa, il comandante provinciale dell'arma voleva obbligare un costruttore a pagargliela, almeno in gran parte. "La casa costa 800 mila euro, me ne occorrono 500... questo mi disse", ha raccontato alcuni mesi fa l'imprenditore Gabriele Valentini al procuratore Fausto Cardella e ai pm David Mancini e Simonetta Ciccarelli. "In cambio Guarino mi disse che sarebbe riuscito a farmi prendere degli appalti della Curia, ma non è mai successo. Ed è iniziato un incubo perché i soldi li voleva, e mi minacciava" si legge nelle pagine dell'interrogatorio. La vicenda è emersa nell'ambito dell'inchiesta sui casalesi all'Aquila, che ha di fatto scoperchiato i rapporti tra la criminalità e l'imprenditoria locale per gli appalti della ricostruzione.
E se la ricostruzione "lenta" finisce nelle mani della criminalità o in quelle della burocrazia (con ritardi che al momento non cosentono nemmeno di stabilire una data certa per la chiusura dei cantieri nel centro storico), quella "lampo" dei 4500 appartamenti realizzati in periferia appena dopo il sisma dall'allora governo Berlusconi - spendendo oltre un miliardo di euro senza gara d'appalto - rischia invece di crollare da sola. Senza nemmeno il terremoto a fare da innesco. 800 balconi del Progetto Case ("Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili"), secondo la procura dell'Aquila e il pubblico ministero Roberta D'Avolio, potrebbero essere pericolanti. Ed è per questo che da ottobre scorso sono scattati sequestri e in alcuni casi evacuazioni degli alloggi. Il sospetto è che per la realizzazione dei fabbricati sia stato usato del materiale in legno scadente. Una vicenda svelata per prima da Repubblica, rendendo note le carte di un'inchiesta dalla Procura di Piacenza su una delle ditte fornitrici. Ora sono in corso le perizie. Sul registro degli indagati al momento sono finite 40 persone, tra imprenditori, tecnici e funzionari pubblici
Alcol e droga per sopportare il vuoto
L'AQUILA - "Qui i giovani non sanno che fare, non hanno svaghi né interessi, si beve e basta. La sera è tutto un ciondolare da un locale all'altro, un distruggersi ingoiando qualsiasi cosa per non sentire, per non pensare". Anna ha trent'anni e parla di ragazzi suoi coetanei, e anche di minorenni, di ragazzi di 13, 14 anni, che all'epoca del terremoto erano bambini e che forse di quella terribile notte non hanno ricordi chiari. "Sì, sono minorenni. Lo so che i locali avrebbero il divieto di vendere alcolici a chi non ha 18 anni, ma chi controlla mai? I ragazzini escono da casa la sera già con la bottiglia in mano, non so se i genitori si accorgono di quello che accade in casa loro, ma in quali condizioni tornano i figli devono vederlo per forza. L'alcolismo sta diventando la piaga della gioventù aquilana", accusa. E che ci sia un problema lo conferma anche il sindaco Massimo Cialente: "Il problema vero è che qui manca il controllo sociale, prima c'erano palazzi abitati e la popolazione era un deterrente anche agli atti di vandalismo. Ora non c'è quasi nessuno". Più facile quindi compiere bravate.
"Fare un bilancio preciso del consumo di alcol e droga non è semplice", dice la dottoressa Daniela Spaziani del Sert dell'Aquila. "Gli ultimi dati ufficiali che abbiamo - sottolinea - risalgono al 2013 e fotografano un incremento delle persone adulte che hanno questi problemi. Però quello che risulta dai dati non sempre rispecchia la realtà, soprattutto se parliamo di minori. I genitori si vergognano a chiedere aiuto. Ma nel 2014, per la prima volta, abbiamo registrato casi di giovanissimi che si sono rivolti alla nostra struttura. Finora non era mai accaduto e le cure del Sert erano riservate agli over 20. Nel caso dei giovanissimi è più corretto parlare di abuso che di dipendenza, che è una vera e propria patologia cronica e recidiva. Sono i soggetti più deboli, maggiormente esposti a diventare consumatori abituali di alcol e droga, quelli che rischiano di rientrare nel tunnel anche anni dopo aver smesso. Abbiamo riscontrato dopo il terremoto un incremento di recidive legate al fatto che il sisma ha provocato un vuoto psicologico. Per alcuni soggetti, che erano in astinenza anche da 10 anni, questo ha comportato un ritorno alla dipendenza: per i giovanissimi non è così. Il consumo che fanno di queste sostanze è spesso legato a situazioni occasionali, come la discoteca o l'uscita serale nel weekend. Durante le serate con gli amici bevono tanto, fumano, magari si menano, ma poi il lunedì è tutto finito fino all'evento successivo".
"La situazione di disagio giovanile che si registra e di cui tutti sono testimoni non è legata a un fattore psicologico, infatti non sono aumentate le richieste di aiuto, piuttosto a un cambiamento delle abitudini sociali - dice il dottor Vittorio Sconci, direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Asl dell'Aquila - È molto difficile sostenere che la causa scatenante sia il sisma. Quel che è certo è che rispetto a prima del 6 aprile 2009 ci sono abitudini diverse. I ragazzi hanno una vita sociale molto ridotta e si incontrano in luoghi in cui prima per loro non era normale o abituale incontrarsi. Andavano al cinema, andavano a fare un giro in centro o si vedevano in piazza con gli amici del quartiere. Oggi è più facile che si diano appuntamento in enoteca. Frequentare quei luoghi diventa abitudine e lo diventa anche ubriacarsi. Più che direttamente nel trauma del terremoto sarei propenso a individuare la causa in una sorta di impoverimento sociale. Questi ragazzi vivono in periferie ricostruite senza un minimo di progettazione condivisa che renda i ragazzi partecipi e attenti al bene collettivo. Sotto questo punto di vista forse un legame con il terremoto c'è. Non si sentono protagonisti di niente e responsabili di niente. Vivono perennemente come se fossero eterni bambini".
L'assessore alle Politiche sociali a L'Aquila, Emanuela Di Giovambattista, cerca di sfumare i toni: "Userei molta cautela a dare la responsabilità del disagio giovanile al terremoto. Si tratta di un disagio che si riscontra in ogni città e quindi non ha un collegamento diretto causa-effetto con l'evento che ha colpito L'Aquila sei anni fa. Di sicuro il sisma ha rotto gli equilibri sociali e c'è stato un impoverimento dei valori anche familiari. Sono aumentate le separazioni e i divorzi e questo sì ha un impatto sui ragazzi. Ma da questo a dire che i giovani fanno uso di alcolici e droghe perché hanno perso la città, ce ne passa. Anche perché parliamo di ragazzi che hanno 15 o 16 anni. Al tempo del terremoto erano bambini e quindi non possono aver subito la stessa perdita che lamentano gli adulti. Il contraccolpo legato alla perdita dei luoghi in cui ci si incontrava esiste senza dubbio, ma non è per questo che possiamo dare la responsabilità al sisma. Probabilmente i fenomeni che attirano l'attenzione come gli atti vandalici, le risse e lo spaccio di droga esistevano anche prima. Magari il terremoto ha amplificato un po' qualche aspetto, ma non in modo così significativo da poter dire che ha influenzato il comportamento dei ragazzi".
Esiste anche un aspetto positivo. "Generalizzare - prosegue l'assessore - è un errore. Accanto ai ragazzi che assumono comportamenti antisociali, ce ne sono altri, e sono tanti, che hanno deciso di prendere in mano il loro futuro e di partecipare attivamente alle iniziative cittadine. Con loro le istituzioni hanno un continuo confronto, fatto anche di momenti più duri. Spesso la loro protesta assume toni un po' forti: hanno occupato spazi pubblici del Comune per fare concerti, proiezioni e incontri culturali. Ma se con questo vogliono sfidare le istituzioni e farlo in modo costruttivo, ben venga. Sono gli adulti che un po' si schermano dietro la scusa del terremoto. Alcuni giovani, come nel caso di quelli che hanno realizzato il video 'L'Aquila - growing up' sostengono una cosa interessante: L'Aquila di prima non la conoscono, è questa la loro città, quella che amano e quella che vogliono vivere. Gli adulti guardano indietro, ma non è detto che rifare l'Aquila come era sia il vero desiderio dei ragazzi".
"Le nostre botteghe perdute nel nulla"
L'AQUILA - C'è chi parla di coraggio, molti di follia. Ma forse dietro c'è qualcosa che è difficile da spiegare "perché solo chi c'è stato e continua ad esserci può capire". Per ora sono ancora pochi, ma sperano di diventare sempre più numerosi i commercianti aquilani che, a sei anni dal sisma che ha devastato i loro affari e le loro vite, vogliono tornare a far rivivere il centro dell'Aquila. Francesco Nurzia, probabilmente, di tempo per pensare se la sua scelta fosse giusta o no, se ne è concesso poco. Insieme alla sua famiglia, titolare di uno dei bar storici di Piazza Duomo, ha fatto di tutto per riaprire i battenti il prima possibile. E ci è riuscito, pur in mezzo a migliaia di difficoltà. L'8 dicembre 2009, ad appena otto mesi dal terremoto, il piccolo locale era l'unica luce nel buio del cuore del capoluogo abruzzese pieno di macerie, crepe e puntelli.
"Siamo stati i primissimi a riaprire, investendo i nostri soldi per riparare i danni e ottenere l'agibilità parziale dell'edificio. Ma era importante esserci, per la città, per gli aquilani e anche per noi". Francesco non si pente della scelta fatta, anche se la vita è difficilissima. "Il primo anno e mezzo dopo il terremoto c'è stato un fiume di gente: turisti curiosi, cittadini disperati, stranieri che venivano a verificare le condizioni della città. Poi i riflettori si sono spenti e il centro è morto per la seconda volta. Oggi lavoriamo soprattutto per gli operai della ricostruzione, ma la situazione è desolante". In effetti, per il Corso e in piazza ci sono solo uomini in tuta da lavoro: alcuni hanno accenti stranieri, pochi sembrano di ditte locali. Ma di cittadini davvero pochi.
"Il problema è che i lavori qui non partono e che tante imprese, che magari avevano avviato le ristrutturazioni, sono fallite prima di concluderle. A rallentare l'iter, che già di per sé è complesso, anche le liti tra i proprietari, diventati in sostanza tutti appaltatori. Forse non sarebbe stato un male affidare tutto allo Stato, invece di lasciare ai cittadini la scelta di imprese e presidenti dei consorzi".
A breve Nurzia dovrà di nuovo scegliere se chiudere e aspettare la fine dei lavori del palazzo, che dovrebbero iniziare entro l'anno, o aprire l'attività in un'altra sede. "Non è una decisione facile: noi qui siamo proprietari, ma molti altri commercianti, dopo il sisma, hanno dovuto affittare locali nei centri commerciali o i in periferia. Altri, adesso che alcuni palazzi sono stati sistemati, affittano anche al centro. Ma i costi sono altissimi. Ci vorrebbe un incentivo, costi vantaggiosi. Invece c'è la tendenza a chiedere canoni più cari di quelli di prima del 6 aprile 2009. Ma gli affari non sono certo come quelli di una volta".
La gente, in effetti, si vede sotto i Portici solo la domenica: per il resto della settimana la vita del centro è desolante. "È come se vivessimo in un paese: domenica mattina gli aquilani fanno una breve passeggiata per rincontrarsi e scambiare due chiacchiere. Poi torna il vuoto. Giusto le sere di giovedì e venerdì c'è un po' di movimento di ragazzi universitari. Ma poca roba". Se i negozi sono pochi, ancora meno le persone che sono tornate ad abitare nel cuore dell'Aquila: "In tutto saranno una decina, ma se non si rilanciano un po' di attività, le persone non hanno interesse a tornare qui", dice Francesco che, però, non vuole arrendersi, come non ha voluto arrendersi Peppe Colaneri, conosciuto da tutti come Peppe 'La Luna'. Aveva poco più che venti anni quando, nel 1981, aprì il suo negozio di gadget nella parte stretta del corso. Dopo il terremoto ha ricominciato prima in via Strinella e poi in periferia. Ma il centro è casa sua e, pur di starci, ha affittato un locale a capo Piazza.
"L'aquilano, per sua natura, è un po' comodo - scherza Peppe - ma non critico chi, invece di venire a comprare il pane all'alimentari qui affianco, sceglie il centro commerciale, dove trova tutto. Di concittadini se ne vedono pochi o niente: ogni tanto c'è un po' di nostalgia, ma è breve. Il 40-50% delle abitazioni riconsegnate è vuoto. E sono comparsi ovunque cartelli di affitti e vendite. Il problema vero è che è cambiato tutto. O meglio: siamo cambiati tutti, anche se non ce ne accorgiamo. E spesso, chi torna qui dopo qualche tempo, piange ancora".
Lacrime di aquilani, ma non solo. "Quando c'è stato l'ultimo test di ammissione alla scuola sottoufficiali della Guardia di finanza - racconta commosso Peppe - la città si è riempita di familiari dei ragazzi. Il 100% di quelli che sono entrati nel mio negozio, mi hanno chiesto scusa". Scusa, ma di che cosa? "Di aver pensato che ormai fosse tutto sistemato, che la nostra vita fosse tornata normale. Invece, di normale, non c'è più niente".
Non c'è rabbia nelle parole dei commercianti, come non c'è più negli aquilani. Le promesse non mantenute hanno reso più dolorose le ferite fatte dal terremoto, ma è la rassegnazione di un destino forse inesorabile il sentimento dominante. "Gli aquilani sono sfiniti e demotivati. Sono anni che lottano contro difficoltà inimmaginabili. Non è vero che hanno aspettato aiuti dal cielo: si sono dati da fare, ma i risultati sono quelli che sono e lo scoraggiamento, spesso, prende il sopravvento". La titolare di una delle cartolerie più frequentate della città ha scelto una strada diversa: ha riaperto la sua attività nella prima periferia, in un edificio che ha costruito a sue spese. Ma se potesse, tornerebbe nella vecchia, storica sede.
Anche lei, come gli altri commercianti, non si fa più illusioni. Soprattutto sa che, nonostante gli sforzi, nulla sarà più come prima. "Noi aquilani siamo diventati tutti strani: esasperati, preoccupati e tristi. Tanti sono andati via e, tra chi è rimasto, sono pochi quelli soddisfatti della vita di ora". La crisi, che ha fatto sentire i suoi effetti in tutto il mondo, all'Aquila ha reso ancora più difficile per i giovani trovare lavoro. E così tanti hanno scelto di lasciare L'Aquila. "La responsabilità è di tutti e forse qualcosa di più si sarebbe potuto fare, come ricostruire il centro come prima cosa: tanti di noi ci sarebbero tornati. E tanti lo farebbero anche ora. Purtroppo, però, non ci sono le condizioni".
I commercianti: "Siamo ancora un non luogo"
L'AQUILA - "Vorrei mostrarvi una realtà dalle tinte colorate, non dico rosa, ma almeno vivaci. Invece qui prevalgono le tinte scure: grigie, per non dire nere". Celso Cioniè il direttore regionale di Confcommercio. Come gli altri, ha subito gli effetti della crisi economica che, sommati a quelli del terremoto, hanno messo in ginocchio i commercianti aquilani. L'anno scorso, per protesta, si barricò all'interno della sede locale di Bankitalia, minacciando di darsi fuoco se il governo non avesse ascoltato le sue richieste e quelle dei commercianti del capoluogo abruzzese. "Dopo quella protesta disperata e plateale, l'atteggiamento delle banche nei confronti dei commercianti è un po' cambiato, il giorno seguente parlai con l'allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Legnini, ma dei 20 milioni di euro che erano stati promessi alle imprese aquilane non c'è stata traccia".
In questi anni cosa è cambiato?
"La situazione non è molto differente da quella del 7 aprile 2009. Nel giro di 20 secondi poco meno di mille esercizi commerciali sono stati cancellati. Negozi e merce distrutti, nessuna idea di cosa fare e come farlo... ha prevalso la politica del 'si salvi chi può', dell'arte di arrangiarsi alla meglio, ma è mancata da subito, e manca tutt'ora, una progettazione e delle linee guida per orientare i commercianti in quel disastro. I danni sono stati di milioni di euro: tutti hanno perso quanto avevano investito per l'avviamento".
E voi, come Confcommercio, come vi siete mossi?
"Abbiamo chiesto più volte un progetto per ricompattare la realtà commerciale del centro della città. Ma non siamo stati ascoltati. La conseguenza è stata la polverizzazione del sistema commerciale: i negozi hanno riaperto dove hanno trovato posto, ma senza rispettare o costruire alcun contesto sociale o economico. Sono nati tanti 'non luoghi', così come è un non luogo il cuore della città ancora morto e deserto. La situazione era ed è difficile, da parte del Comune si sarebbe potuto fare di più".
In che senso?
"Avevamo realizzato un progetto per un milione di euro, stanziato dal governo, che prevedeva la sistemazione dei negozi del centro storico in una ex fabbrica alla prima periferia della città. Avevamo raccolto 380 adesioni da parte degli esercenti e, se fosse andato in porto, avrebbe consentito di mantenere l'identità e il rapporto di fiducia che, in una città piccola, si instaura tra venditore e cliente. L'affitto dei locali non avrebbe superato i 13 euro a metro quadrato al mese, contro i 25-30 che ora vengono chiesti a chi affitta spazi nei nuovi centri commerciali, e, una volta ricostruito il centro storico, gli stessi commercianti avrebbero potuto dare vita a seconde attività, magari gestite da figli".
Ora com'è la situazione?
"Pessima. Il settore è allo stremo. Allo shock del sisma del 2009 si è unito quello della crisi economica del 2011 e alle perdite si è aggiunta la ridotta capacità di spesa che ha coinvolto tutti. Per fare fronte a tutto questo, abbiamo chiesto al Comune di ragionare su canoni di affitto concordati, che prevedessero per i proprietari degli immobili agevolazioni, come una riduzione dell'Imu o misure simili. La risposta è stata negativa e, ancora oggi, non c'è una rotta che i negozianti possano seguire. E, senza rotta, anche continuando a voler navigare, non si va da nessuna parte".
Qualcuno, però, al centro è tornato...
"Sì, una decina di esercizi hanno riaperto i battenti. Per lo più si tratta dei locali che polarizzano la movida dei ragazzi universitari. Un negozio di intimo aveva provato a riaprire, così come un bar storico, ma hanno chiuso subito. D'altronde in centro non viene nessuno, si incontrano solo gli operai dei cantieri durante la pausa pranzo. Ma la città è ancora una Pompei".
Hanno resistito anche gli ambulanti che piuttosto che chiudere i battenti hanno scelto di spostarsi in piazza d'armi.
"Il mercato dell'Aquila ha una lunghissima storia: è uno dei pochi in Italia ad essere presente tutti i giorni. E gli aquilani, a prescindere dalla posizione sociale, ci sono particolarmente legati. Per questo gli ambulanti hanno risposto coralmente al progetto e il 75% continua a far vivere la tradizione".
Ma il sogno di tutti è tornare in Piazza Duomo...
"Certo, quando ci saranno le condizioni. Ma quel tempo è ancora lontano. Se a questo si aggiunge che i proprietari, dopo aver ricevuto i fondi per la ricostruzione, arrivano a chiedere affitti pari a 39-40 euro a metro quadro, il sogno diventa ancora più lontano. Si tratta di una vergogna, una vergogna nazionale sulla quale bisognerebbe intervenire al più presto. Solo così gli aquilani potranno sperare in un futuro, magari anche rosa".