ROMA Dal punto di vista del governo, è un altro passo verso quella mobilità tanto invocata ma scarsamente attuata nel settore pubblico. Per i sindacati invece c’è il rischio di un taglio delle retribuzioni effettive o quanto meno di una compressione futura, di un blocco di fatto dopo cinque anni di mancati rinnovi contrattuali.
Oggetto del contendere è il decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) consegnato ieri alle organizzazioni sindacali e soprattutto le annesse tabelle di equiparazione, che dovrebbero concretamente permettere di trasferire un dipendente da un comprato all’altro della Pubblica amministrazione a parità di stipendio. Le tabelle sono dettagliate e complesse, ma l’idea che è alla base è semplice: se un lavoratore si deve spostare - su base non volontaria - poniamo da un ministero ad un Comune, deve essere collocato in un’area e in un livello economico il più possibile corrispondente a quello di provenienza, visto che in queste strutture il lavoro del personale è organizzato in modo diverso.
Così ad esempio un dipendente con inquadramento III F7 nel ministero (il più alto) e trattamento economico pari a 30.648,62 euro corrisponde a un D6 nel comparto Regioni-enti locali, dove però la relativa retribuzione è di 28.342,72 euro. Il decreto prevede che l’interessato possa mantenere il trattamento economico fondamentale e accessorio se più favorevole (come appunto nel caso in questione), ma questo avverrà attraverso l’erogazione di un assegno ad personam riassorbibile con i futuri miglioramenti economici a qualsiasi titolo: vuol dire che da quel momento in poi lo stipendio non crescerà più (anche in caso di rinnovi contrattuali) almeno fino a che non sarà stato raggiunto il livello di partenza. Inoltre il lavoratore potrà optare per il trattamento previdenziale che aveva nell’amministrazione di provenienza.
I DUBBI DELLE REGIONIIl primo banco di prova della nuova mobilità dovrebbe essere il trasferimento dei dipendenti delle Province, che dopo la riforma dello scorso anno sono state obbligate dalla legge di Stabilità a cedere il 50 per cento del personale insieme alle relative funzioni. Una quota consistente dovrebbe andare alle Regioni, che però in larga parte non hanno ancora approvato le proprie leggi in materia, e comunque pongono un problema di risorse finanziarie. In ogni caso il metodo scelto dall’esecutivo non è piaciuto ai sindacati, che sul tema di retribuzioni e qualifiche chiedono una trattativa più sostanziale vista la complessità delle materie (nell’incontro di ieri, a livello tecnico, è stato dato un tempo di 7 giorni per osservazioni e controproposte). Sullo sfondo c’è la manifestazione di protesta indetta da Cgil, Cisl e Uil per l’11 aprile a Roma. «Siamo pronti a dare battaglia» hanno fatto sapere i leader Dettori (Fp-Cgil) Faverin (Cisl Fp), Torluccio e Attili (Uil).
Per Marianna Madia, ministro della Funzione pubblica, si tratta di timori infondati. «A chi verrà chiesto di valorizzare la propria professionalità in una diversa amministrazione non sarà tolto neanche un euro di stipendio o di pensione» ha osservato Madia. Che poi si è rivolta direttamente ai sindacati «Le strade sono due: vogliono aiutarci con i loro contributi puntuali e di merito prima dell’adozione definitiva del provvedimento oppure vogliono proseguire in una battaglia ideologica?».