ROMA L’Italia sembrava sull’orlo del baratro in quel dicembre 2011, con lo spread a 570 punti e la paura concreta di un default. E così la decisione del governo Monti di congelare la rivalutazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo (originariamente la misura era più addirittura più drastica e la bloccava oltre due volte), annunciata insieme all’abolizione delle pensioni di anzianità ed all’introduzione dell’Imu, attirò sì l’attenzione ma solo fino a un certo punto. Si tratta della famosa legge Fornero per la quale l’allora ministro del Lavoro scoppiò in lacrime durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi. Ora la Corte costituzionale ha deciso che quel blocco era illegittimo, contrario agli articoli 36 e 38 della Costituzione che interpretati in modo da «offrire particolare protezione al lavoratore» come riconosce la stessa Corte, richiedono la proporzionalità del trattamento previdenziale (inteso come retribuzione differita) e la sua adeguatezza.
GLI EFFETTI Per i circa sei milioni di pensionati coinvolti è una buona notizia, ma per le casse dello Stato può essere una bomba, come hanno riconosciuto ieri sia Palazzo Chigi (fonti di governo parlano di «prova non facile») sia il viceministro dell’Economia Morando che pur risevandosi una valutazione più approfondita parla di «impatto rilevante» Nel dettaglio, l’articolo 25 comme 24 del decreto “salva Italia” (legge 214 del 2011) prevedeva che l'adeguamento all'inflazione fosse riconosciuto per il 2012 e il 2013 solo ai trattamenti non superiori a tre volte il trattamento minimo, quindi più bassi di 1.405 euro mensili lorde dell'epoca. Al di sopra di questa soglia la pensione restava inchiodata al valore dell’anno precedente. Con la sentenza del 10 marzo, redatta da Silvana Sciarra e depositata ieri, i giudici costituzionali rispondevano alla Corte dei conti ed al tribunale di Palermo, a seguito dell'azione di un pensionato rappresentato dagli avvocati Riccardo Troiano e Alessia Ciranna dello studio Orrick. Pronunciandosi, hanno in sostanza stabilito che lo Stato può sì applicare in modo limitato la rivalutazione dei trattamenti pensionistici, ma lo deve fare secondo seguendo alcuni criteri e bilanciando le esigenze dei conti pubblici con quelle dei pensionati. Gli interventi non devono essere ripetuti nel tempo, devono essere ragionevoli ed adeguatamente motivati. La Corte aveva già dato un avvertimento in questo senso con precedenti sentenze: le norme contenute nel decreto salva-Italia sono invece “incisive”, congelando gli interi trattamenti al di sopra della soglia, e non appaiono nemmeno sufficientemente motivati: nel provvedimento del governo Monti si parlava genericamente di «contingente situazione finanziaria».
Toccherà ora al governo decidere come provvedere al rimborso degli aumenti non erogati, ed al proporzionale incremento delle pensioni anche per gli anni futuri. I conteggi fatti all’epoca individuavano risparmi di 1,8 miliardi per il 2012 e poi di 3,1 miliardi a regime dall’anno successivo. Dunque il solo rimborso delle due annualità in questione vale 5 circa miliardi. Ma cancellare il comma 25 impone anche di ripristinare il danno permanente fatto agli assegni pensionistici, che si sarebbero portati dietro per sempre il mancato aumento: sono appunto 3,1 miliardi l’anno, il che vuol dire che con il 2015 si sarebbe già arrivati oltre i 10. Senza contare che i calcoli erano stati fatti su tassi di inflazione più bassi di quelli che poi si sono concretizzati, 2,7 per cento il primo anno e 3 il secondo. La prima vittima della sentenza è il cosiddetto “tesoretto”: ma 1,6 miliardi per il solo 2015 non basteranno certo a chiudere la partita.
Perdita di 60 euro al mese per un assegno di 1.500
ROMA Quanto vale per un pensionato italiano la sentenza della Corte costituzionale? Il governo non ha ancora deciso in che forma saranno rimborsati i mancati aumenti arretrati, che potrebbero arrivare anche non tutti insieme (in passato in situazioni simili si era addirittura fatto ricorso al pagamento in titoli di Stato). Ma il punto è che in ogni caso la rivalutazione a suo tempo negata dovrà essere ripristinata sull’importo attuale dell’assegno pensionistico, che quindi si porterà dietro l’incremento anche per gli anni successivi.
INFLAZIONE ALTA ono cifre tutt’altro che trascurabili. Oggi l’inflazione è vicina allo zero ed infatti la perequazione per il 2015 è risultata minima o addirittura nulla: ma per i due anni in questione, 2012 e 2013, si applicano invece tassi di tutto rispetto, rispettivamente il 2,7 e il 3 per cento. Quindi una pensione di 1.500 euro lordi al mese dell’epoca, non altissima ma abbastanza elevata da incappare nella tagliola, avrebbe dovuto crescere a 1.541 nel 2012 e a 1.587 nel 2013 con un miglioramento - a suo tempo non riconosciuto - di 87 euro al mese. Questi importi sono però sottoposti ad Irpef progressiva, per cui il beneficio netto si riduce, sempre sui due anni, a circa 60 euro al mese, un po’ meno di 800 euro l’anno considerando 13 mensilità. Questo è l’aumento strutturale che dovrebbe essere ripristinato in seguito al pronunciamento dei giudici costituzionali. Se invece si vuole ragionare sul mancato rimborso complessivo per il 2012 e il 2013, la somma si avvicinerebbe ai 1.500 euro, visto che nel primo anno il miglioramento è meno consistente e pari a poco meno della metà di quello complessivo.
LE NORME PRECEDENTI Per importi pensionistici maggiori il mancato aumento è stato naturalmente più consistente e dunque più significative dovrebbero essere le cifre riconosciute ora: tenendo presente però che già le norme precedenti all’intervento del governo Monti prevedevano una progressiva decurtazione degli aumenti al crescere della pensione e dunque il recupero non sarebbe stato in ogni caso totale.
Ora dunque la palla è al governo che dovrà decidere le proprie mosse in una situazione dei conti pubblici già problematica, per le necessità di scongiurare gli aumenti dell’Iva fissati al 2016.