Nella legge di stabilità per il 2016 le soluzioni per consentire il ritiro anticipato: ecco le ipotesi sul tavolo del Governo tra ricalcoli, quote e penalizzazioni
1. Pensione «flessibile» / L’anticipo con taglio
Assegno a 62 anni alleggerito per sempre
La soluzione è rivolta ai lavoratori di tutti i comparti (pubblico, privato, autonomo), uomini e donne, e individua i 66 anni di età e i 35 di contribuzione quale punto di riferimento. Rispettando il minimo contributivo, però, è possibile variare l'età del pensionamento a patto che l'importo dell'assegno sia pari almeno a 1,5 volte l'importo di quello sociale.
In base alla normativa attuale, per accedere alla pensione di vecchiaia sono necessari almeno 20 anni di contributi e un'età che per gli uomini è di 66 anni e 3 mesi, mentre per le donne oscilla tra i 66 anni e 3 mesi delle dipendenti del pubblico impiego e i 63 anni e nove mesi per chi lavora nel privato.
In base al progetto di legge 857, se ci si ritira dal lavoro prima dei 66 anni, l'importo del trattamento subisce un taglio di due punti percentuali per ogni anno di anticipo, arrivando a un massimo dell'8 per cento. Il taglio si riduce se si possono vantare oltre 35 anni di contributi. Per esempio chi ne ha 38 e va in pensione a 62 anni subisce una decurtazione del 6,9%, mentre con 40 la limatura scende al 3 per cento.
Viceversa, se si resta al lavoro oltre l'età di riferimento, si matura un assegno più consistente del 2% per ogni anno di età, fino a un +8% a 70 anni. In questo caso avere più di 35 anni di contributi non incide sul “premio”. Va rilevato, peraltro, che la normativa attuale non consente ai dipendenti pubblici di rimanere al lavoro raggiunti i requisiti.
In alternativa, sempre secondo il progetto di legge 857, chi ha almeno 41 anni di contributi può andare in pensione a prescindere dall'età anagrafica. Attualmente la pensione anticipata indipendentemente dall'età richiede 42 anni e 6 mesi di contributi per gli uomini e un anno in meno per le donne. Inoltre, fino al 2014, chi vi accedeva prima dei 62 anni subiva una penalizzazione economica sulla quota di trattamento relativa all'anzianità contributiva ante 2012 pari all'1% per ognuno dei primi due anni di anticipo e del 2% per ogni ulteriore anno.
Questa ipotesi di flessibilità in uscita raccoglie consensi trasversali in commissione Lavoro alla Camera. Presentata da esponenti del Pd, viene valutata positivamente da Forza Italia e anche la Lega potrebbe sostenerla. Tuttavia non è detto che sia la soluzione a cui sta pensando il governo, almeno per quanto riguarda la portata della penalizzazione per chi anticipa. Durante la sua audizione presso la commissione, il 3 giugno, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti non ha dato riscontro al deputato Walter Rizzetto che ha chiesto se i 66 anni di età e il taglio dell'8% sono ritenuti sostenibili o se si stanno ipotizzando penalizzazioni più consistenti. Inoltre c'è il nodo costi, che nel progetto di legge non è toccato ma che, come ha affermato Cesare Damiano nei giorni scorsi «sono impegnativi».
Sconto di cinque anni
Secondo le regole attuali, un lavoratore può accedere alla pensione di vecchiaia con 66 anni di età e almeno 20 di contributi. Una persona nata nel 1953 quest'anno non ha quindi il requisito anagrafico, essendo sessantaduenne e per maturare il minimo dovrebbe attendere fino al 2020. Però, se può vantare 35 anni di contributi potrebbe beneficiare della nuova modalità di anticipo, a fronte di un taglio dell'importo dell'assegno pari all'8 per cento.
Ipotizzando un trattamento mensile“pieno” di 1.500 euro lordi, la decurtazione sarebbe di 120 euro. Tenuto conto, inoltre, che è probabile che abbia iniziato a lavorare prima dei 27 anni, gli anni di contribuzione potrebbero essere 37 o 40, limitando ulteriormente la penalizzazione economica. In alternativa può attendere un paio di anni e contare così su 64 anni di età e almeno 37 di contributi, che determinano un taglio del 3,3 per cento.
Il numero chiave: 66 anni
L’età di riferimento sotto la quale scattano le penalizzazioni
2. Pensione «flessibile» / La staffetta generazionale
Orario ridotto e pensione per far entrare nuove leve
L'uscita dei lavoratori prossimi alla pensione porta la necessità di formare nuove generazioni che vadano a sostituire quelli più anziani. Con la staffetta generazionale, citata più volte dal ministro Poletti negli ultimi giorni si può prevedere la possibilità di sostituire una parte delle persone che maturano i requisiti pensionistici con l'ingresso di giovani. Così facendo si riuscirebbe a incrociare il tema dell'occupazione giovanile e dell'investimento in conoscenza delle imprese.
In tale contesto inoltre si lega la questione dei lavoratori socialmente utili (Lsu) che dovrebbero essere utilizzati su percorsi di uscita e di invecchiamento attivo. Già alla fine degli anni Novanta, nel pubblico impiego, era stata prevista una norma (poco utilizzata) che potrebbe essere riutilizzata in questa occasione. La Finanziaria del governo Prodi (legge 662/1996) aveva previsto l'emanazione di norme regolamentari per la definizione dei criteri e delle modalità applicative delle disposizioni concernenti il trattamento di pensione e di anzianità e, in deroga al regime di non cumulabilità previsto per il pubblico impiego, il passaggio al rapporto di lavoro a tempo parziale nei confronti del personale delle amministrazioni pubbliche.
Tali lavoratori, naturalmente, beneficiano di una pensione ridotta in misura corrispondente alla percentuale di part time di lavoro svolto presso l'ente. In pratica incasserebbero una pensione ridotta e uno stipendio per la prestazione lavorativa. Il tutto a beneficio delle casse dell'Inps, che pagherebbe – in un primo momento - una pensione più bassa e continuerebbe a incassare i contributi sulla parte di stipendio erogata all'interessato, oltre alla parte relativa alla retribuzione del neo assunto. Se tale soluzione potrebbe essere di aiuto per il settore privato (non solo nei settori ad elevato apporto artigianale), nel pubblico impiego sarebbe necessario rivedere le modalità con le quali è possibile effettuare assunzioni a tempo indeterminato. Naturalmente, una volta che il lavoratore-pensionato decidesse di cessare definitivamente il proprio rapporto di lavoro si vedrebbe ricalcolare il trattamento pensionistico, considerando anche le ulteriori retribuzioni percepite. Finora la norma è applicabile a condizione che il lavoratore abbia già raggiunto un diritto a pensione.
Considerando le elevate anzianità contributive oggigiorno richieste per il pensionamento anticipato e il requisito anagrafico di 66 anni 3 mesi per il conseguimento di quello di vecchiaia, il ricorso a tale istituto potrebbe risultare poco allettante. Tuttavia l'utilizzo di questa possibilità potrebbe essere incentivato prevedendo la trasformazione incentivata (o obbligata) a part time quando al lavoratore mancano un certo numero di anni per la pensione, così da garantire l'ingresso di nuove leve. L'aspetto finanziario da valutare è quello di garantire copertura piena – o integrata – affinché il trattamento pensionistico erogato alla cessazione sia in linea con quello che il lavoratore avrebbe maturato se non fosse andato in part time.
Tutto a metà
Un lavoratore con uno stipendio mensile lordo di 1.700 euro potrebbe contare su una pensione teorica spettante al momento della trasformazione del suo impiego in part time, per effetto della staffetta generazionale, di 1.600 euro lordi. Questa persona decide, però, di lavorare ancora per altri tre anni al 50 per cento, incassando di conseguenza uno stipendio mensile lordo di 850 euro. La pensione che verrebbe messa in pagamento, nei tre anni di part time, sarebbe di 800 euro al mese.
Occorrerebbe altresì stabilire un tetto retributivo che non può essere superato dal cumulo dello stipendio e della pensione. Al termine del periodo di part time l'importo della liquidazione definitiva della pensione sarebbe pari a 1.600 euro più la quota maturata durante i tre anni.
Il numero chiave: 50%, part time
La staffetta generazionale prevede una minor presenza in azienda
3. Pensione «flessibile» / Il ritorno delle quote
Età più contributi senza penalizzazioni
Le quote sono state superate dalla riforma Monti-Fornero, anche se taluni lavoratori possono continuare ad accedere alla pensione di anzianità se impiegati in catene di montaggio, lavori notturni e similari. Oggi è possibile andare in pensione anticipatamente, rispetto al requisito anagrafico di vecchiaia, con 41 anni 6 mesi di contributi per le donne, 42 anni 6 mesi per gli uomini. La proposta di legge 2945, presentata dall'ex ministro Cesare Damiano quale primo firmatario, prevede la possibilità di accedere alla pensione – per i lavoratori dipendenti pubblici e privati - con quota 100 con almeno 62 anni di età e 35 anni di contributi limitatamente al periodo 2016/2021.
Per i lavoratori autonomi la somma è elevata a 101 con una età anagrafica non inferiore a 63 anni. Tuttavia tale possibilità dovrebbe essere integrata da una penalità applicata sull'importo del trattamento pensionistico che subirebbe una decurtazione del 2-3% per ogni di anticipo rispetto all'età ordinariamente prevista (vedi altro articolo in pagina). Un intervento analogo fu disposto nel 1994 (legge 537/1993). La penalità era pari all'1% se mancava un anno per raggiungere i 35 anni di contributi e saliva fino al 35% se gli anni mancanti erano quindici.
L'obiettivo principale, infatti, deve essere quello di introdurre strumenti di flessibilità nel sistema pensionistico lasciando al lavoratore la possibilità di decidere quando uscire, valutando il costo della propria decisione. Un'altra proposta di legge presentata il 12 marzo scorso (numero 2955 primo firmatario Emanuale Prataviera) prevede un'età anagrafica di almeno 58 anni oppure un'anzianità contributiva di 35 anni con l'ulteriore condizione che la somma di questi due elementi raggiunga almeno quota 100. Ciò equivale a dire che nel primo caso occorrono almeno 42 anni di contributi (requisito oggi richiesto per il pensionamento anticipato) mentre nel secondo almeno 65 anni di età. Risulterebbe di aiuto per quei lavoratori che si trovano nel mezzo e che riuscirebbero a perfezionare un diritto a pensione immediato invece che rimanere al lavoro per altri anni. È il caso della persona con 60 anni di età e 40 anni di contributi, che oggi si trova a dover lavorare altri 2 anni e 10 mesi in più.
La proposta di legge non prevede limiti nell'applicazione temporale, a differenza della precedente, e comporta altresì il blocco della speranza di vita per un triennio dalla data di entrata in vigore della norma. Infatti dal prossimo anno i requisiti anagrafici e contributivi per l'accesso alla pensione subiranno un ulteriore aumento di 4 mesi legato all'incremento della speranza di vita. L'impatto finanziario di queste proposte appare troppo gravoso ed è necessario che qualsiasi intervento decida di mettere in atto il Parlamento, tenga in considerazione un'uscita graduale da parte di quei lavoratori che – oggi privi di diritto a pensione - per effetto della rivisitazione dei requisiti potrebbero accedervi immediatamente. E non c'è motivo di pensare che non lo facciano.
In pensione prima anche senza lavorare
In base alle regole attuali, una lavoratrice dipendente che ha oggi 60 anni di età e 38 anni di contributi, potrà lasciare il suo impiego nel 2018 con la pensione anticipata, al raggiungimento del requisito di 41 anni e 10 mesi di contributi. In base al progetto di legge Damiano, questa lavoratrice uscirebbe nel 2017 avendo 62 anni di età, 40 anni di contributi e perfezionando quota 100.
Con il progetto di legge 2955 uscirebbe nel 2016, con 61 anni di età e 39 di contributi sommando quota 100. Se queste proposte diventassero operative e se la lavoratrice del nostro esempio decidesse, utilizzando le “aperture” contenute nei Ddl, di lasciare il lavoro nel corso di quest'anno, maturerebbe il diritto a pensione nel 2017, perfezionando comunque quota 100.
Il numero chiave: quota 100, il minimo
La somma tra età e contributi per smettere di lavorare
4. Pensione «flessibile» / Il ricalcolo con il contributivo
Assegno in base a quanto effettivamente versato
Il ricalcolo dei trattamenti pensionistici utilizzando il metodo contributivo ufficialmente non è nelle intenzioni del governo ma non è da escludere a priori, tanto più che nelle scorse settimane se ne è parlato più volte. Inoltre le peculiarità del sistema contributivo sono state sottolineate ripetutamente dall'Inps guidata dal presidente Tito Boeri che con l'operazione “Inps a porte aperte” ha evidenziato come molti dei trattamenti in pagamento oggi subirebbero una consistente decurtazione, spesso superiore al 30%, se ricalcolati con il contributivo.
Il sistema contributivo è nato nel 1996, per effetto della riforma Dini e finora le pensioni messe in pagamento con tale sistema sono di due tipologie. La prima relativa a lavoratori contributivi puri (cioè privi di anzianità contributiva al 1995) e che hanno maturato negli anni passati il diritto a pensione. La seconda riguarda i cosiddetti optanti e, in particolar modo, le donne che hanno deciso di accedere alla pensione di anzianità rinunciando a una parte significativa del proprio assegno pur di poter lasciare prima il mondo del lavoro (si veda articolo a fianco). In questo caso la “ricostruzione” dei contributi accumulati (montante) al 31 dicembre 1995 avviene prendendo a riferimento le retribuzioni di un determinato numero di anni (massimo dieci) in funzione del sistema di calcolo applicabile (ex retributivo o misto). Pertanto, il “ricalcolo” al contributivo in questi casi non sarà mai un conteggio effettivo sulle contribuzioni versate dal lavoratore e dal datore di lavoro in costanza di attività lavorativa.
Tuttavia ciò non toglie che governo e Inps mettano a punto un sistema che consenta un effettivo ricalcolo contributivo su tutta la carriera lavorativa. Soluzione che necessita però di ricostruire le effettive retribuzioni. Nel pubblico impiego, per esempio, si incontra la difficoltà di sapere quelle che sono le retribuzioni antecedenti il 1996. Infatti per i dipendenti iscritti alla Cassa Stato, solo il datore di lavoro è a conoscenza delle retribuzioni erogate negli anni. Solo con la riforma Dini (legge 335/1995) sono state denunciate le retribuzioni e quindi sono note le relative contribuzioni. Per i dipendenti degli altri comparti (enti locali, sanità, eccetera) iscritti alla Cpdel, Cps, Cpi, Cpug sono note anche le retribuzioni antecedenti il 1996 considerato che il pagamento dei contributi avveniva tramite l'emissione dei ruoli. Il calcolo retributivo è noto che risulta più vantaggioso, poiché prende a riferimento le retribuzioni degli ultimi di carriera lavorativa che verosimilmente risultano essere maggiori di quelle di inizio carriera. Il sistema contributivo ha il pregio di tenere in considerazione le retribuzioni (e quindi le contribuzioni) effettivamente erogate, restituendo sotto forma di pensione il valore accumulato e rivalutato nel corso dell'intera vita lavorativa, tenendo conto anche dell'età posseduta dal lavoratore al momento del pensionamento. A una maggiore età anagrafica corrisponderà un importo di pensione più elevato.
Trattamento meno generoso
Per comprendere i possibili effetti di un ricalcolo in forma contributiva immaginiamo il caso di una lavoratrice, impiegata nel settore pubblico e assunta il 1° gennaio 1978. Questa signora potrebbe cessare la sua attività il 30 dicembre 2015 ricorrendo all'opzione donna, in quanto non ha i requisiti minimi per la pensione di vecchiaia e nemmeno per quella anticipata.
A fine 2015 il suo stipendio sarà di 42.850 euro e la retribuzione media pensionabile di 49.510 euro. Se avesse un diritto a pensione, potrebbe incassare un assegno annuale di 37.225 euro, mentre se le fosse applicato il calcolo interamente contributivo di cui si è parlato nelle scorse settimane, il trattamento scenderebbe a 25.150 euro, con un taglio dell'assegno pari al 32 per cento.
Il numero chiave: 32%, il taglio
Il ricalcolo determina una riduzione consistente
5. Pensione «flessibile» / Le opzioni per le donne
Calcolo contributivo e bonus per i figli
In tema di flessibilità in uscita le donne possono contare su almeno due soluzioni già disponibili e che costituiscono la base su cui sono state costruite alcune proposte di legge all'esame della commissione Lavoro della Camera.
Quella comunemente conosciuta come “opzione donna” è la più famosa: introdotta in via sperimentale fino al 2015 dall'articolo 1, comma 9, della legge 243/2004 (riforma Maroni), consente di andare in pensione con 35 anni di contributi e 57 anni di età (58 per le autonome - requisiti innalzati di 3 mesi per l'adeguamento alla speranza di vita), però a fronte del calcolo del trattamento interamente con il metodo contributivo. Ciò comporta una riduzione dell'assegno di almeno il 25-30 per cento.
I numeri testimoniano che, pur a fronte di una penalizzazione consistente sul piano economico, l'opzione donna negli ultimi tre anni, a fronte dell'incremento dei requisiti standard, è stata scelta da un numero crescente di lavoratrici: dalle 1.377 pensioni liquidate nel 2011 si è passati alle 5.646 del 2012 fino alle 11.527 del 2014.
In base alla legge 243/2004 l'opzione è valida per tutto il 2015, anno entro cui devono essere maturati i requisiti di accesso alla pensione (che poi, per effetto delle finestre mobili, scatta effettivamente fino a 19 mesi dopo). L'Inps, con la circolare 35 del 2012, ha detto invece che entro il 2015 deve essere maturata la decorrenza della pensione.
Su questa interpretazione si è accesso un dibattito all'interno del Parlamento ma anche nel governo. Come confermato mercoledì scorso dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti in audizione alla commissione Lavoro della Camera, il suo dicastero e l'Inps propendono per il termine del 2015 quale data per la maturazione dei requisiti, mentre il ministero dell'Economia per la decorrenza della pensione. Su questo punto le divergenze di opinione non sono ancora state risolte e quindi non si capisce bene cosa potrà succedere, ma la deputata Maria Luisa Gnecchi auspica che si arrivi semplicemente a una corretta interpretazione della legge senza prevedere ulteriore copertura finanziaria (nel medio lungo periodo, peraltro, l'opzione determina un risparmio sui conti previdenziali).
In questo contesto il progetto di legge 2046, primo firmatario Massimiliano Fedriga, prevede un'estensione del periodo di sperimentazione dell'opzione donna fino al 2018, termine da intendersi valido per perfezionare i requisiti della pensione.
Altro strumento di flessibilità è previsto dall'articolo 1, comma 40, della legge 335/1995. Alle donne soggette al sistema contributivo è riconosciuto un anticipo di età rispetto a quanto richiesto per la pensione di vecchiaia pari a quattro mesi per ogni figlio con un massimo complessivo di un anno. Ebbene alcuni progetti di legge chiedono di portare questa agevolazione a un anno per figlio con un massimo di 5 anni o anche di riconoscere tre anni di contribuzione figurativa per ogni figlio. La proposta di legge 1879 del 2013, a firma del deputato Edmondo Cirielli, fissa invece a 63 anni l'età minima per l'accesso alla pensione di vecchiaia, con una penalizzazione dell'assegno pari al numero di anni di anticipo rispetto ai requisiti standard, diviso la speranza di vita alla data di cessazione dal lavoro.
Beneficio di 7 anni ma con un costo elevato
Una lavoratrice dipendente del settore privato nata nel 1957, che ha raggiunto i 35 anni di contributi l'anno scorso, quest 'anno potrebbe andare in pensione con l 'opzione donna.
Se invece volesse maturare il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia, che nel frattempo si adeguerà alla speranza di vita, dovrebbe aspettare il 2024-2025, quando avrà 67-68 anni.
A quel punto, tuttavia, avrà maturato prima il diritto per la pensione anticipata, a cui si accede indipendentemente dall'età, dato che nel 2022 potrà vantare 43 anni di contributi a fronte dei 42 e 6 mesi richiesti. Il “prezzo” di questo anticipo con l'opzione donne è però un sensibile taglio all 'importo della pensione, valutabile tra il 25 e il 30 per cento.
Il numero chiave: 2015, la scadenza
In teoria l'opzione donna non sarà più fruibile dopo quest'anno