Quattro porte per la pensione anticipata. Il governo Renzi sta lavorando a un ventaglio di soluzioni per consentire l'uscita dal mondo del lavoro prima dei fatidici 66 anni stabiliti dalla riforma Fornero: in pratica, si potrà ricevere l'assegno dell'Inps già a 62 anni, ma con un importo mensile ridotto. Ed è sull'entità del taglio che si dibatte: chi dice 2% annuo, chi parla di cifre intorno al 6-8%. Al vaglio, però, ci sono anche altre ipotesi: la cosiddetta “staffetta generazionale” che prevede la coesistenza 50 e 50 sul posto di lavoro di “pensionati in anticipo” e giovani neoassunti. Si discute anche del ritorno delle quote: per andarsene in anticipo forse bisognerà totalizzare 100 (o 101 per gli autonomi), sommando l'età (servono almeno 62 anni) e i contributi (almeno 35 anni). Sul tavolo c'è pure il prolungamento e l'estensione a tutti i lavoratori della “opzione donna”: chi vuole andare in pensione prima, accetta il ricalcolo del trattamento con il sistema contributivo. Le proposte sono in discussione nelle Commissioni Lavoro della Camera e del Senato e anche l'Inps, presieduta dall'economista Tito Boeri, sta dando un contributo di idee al dibattito. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha assicurato di voler arrivare al dunque entro l'autunno, per poi inserire il provvedimento nella finanziaria 2016. Non sarà semplice: l'obiettivo è offrire ai lavoratori una maggiore flessibilità in uscita rispetto alla legge Fornero, ma senza intaccare i conti pubblici. Questioni non di poco conto che interessano migliaia di persone anche in Abruzzo. Secondo l’Istat, i cittadini della nostra Regione che hanno tra 60 e 64 anni, teoricamente i primi a poter beneficiare dell'uscita anticipata, sono 82.411 (48,3% uomini, 51,7% donne) e rappresentano il 6,2% della popolazione. Da questo numero, però, bisogna togliere i circa 30mila under 65 che già percepiscono una pensione di vecchiaia. Quella dell'uscita anticipata non è una questione nuova nel dibattito politico: la flessibilità era già prevista dalla riforma Dini del 1995 per quanti accettavano di andare in pensione con il sistema contributivo. In quel caso l'età minima era fissata a soli 57 anni. Ma il pensionamento anticipato anziché a 65 anni portava a una significativa decurtazione dell'assegno dell'Inps: tra il 20 e il 30% in meno. Dà lì in poi sono stati introdotti elementi che hanno derogato a questo sistema (le quote), finché le ultime riforme hanno praticamente cancellato la flessibilità per contenere la spesa. Vincenzo Galasso, professore di Economia alla Bocconi, scrive su LaVoce.info che «anche l'introduzione di una flessibilità in uscita giusta (ovvero equa) nel breve periodo incrementerebbe la spesa previdenziale». Secondo alcuni studi affinché il sistema previdenziale continui a essere sostenibile, il pensionamento anticipato deve essere associato a riduzioni comprese tra il 6 e l'8% annui. Percentuali lontane da quelle previste dalla maggior parte dei progetti di legge discussi in questi giorni. «Queste soluzioni costerebbero dagli 8,5 ai 10,6 miliardi di euro», ha tuonato il presidente dell'Inps Boeri. L'unica possibilità che ha ottenuto il placet dall'istituto di previdenza è la proroga sine die e l'eventuale estensione agli uomini della cosiddetta “opzione donna” che prevede il calcolo con il contributivo, magari rivedendo sia l'età anagrafica (ora a 57 anni) sia l'anzianità contributiva. «Il contributivo - ha detto Boeri - ci consente flessibilità. Perché non usarlo? Ci sono persone disponibili a prendere meno pur di andare in pensione prima». Mentre si discute, l'anno prossimo scatteranno i nuovi allungamenti dell'età pensionabile legati alla speranza di vita: 4 mesi per gli uomini (66 anni e 7 mesi) e nuovo scalino anche per le donne del privato a 65 anni e 7 mesi (66 anni e un mese le autonome).
LE PROPOSTE: A 62 ANNI CON MENO SOLDI
Quattro anni prima rimettendoci 90 euro
A casa a 62 anni ma con meno soldi È l'ipotesi contenuta nella proposta di legge 857 del 2013, che ha come primo firmatario l'ex ministro del Lavoro Cesare Damiano. Il meccanismo è piuttosto semplice: si potrà andare in pensione con 35 anni di contributi e un'età compresa tra 62 e 70 anni. L'importo del trattamento verrà decurtato del 2% per ogni anno di anticipo, fino a un massimo dell'8% in quattro anni. Per chi ha più di 35 anni di contributi il taglio dovrebbe essere addirittura inferiore. Chi lascia il lavoro più tardi, invece, riceverà una maggiorazione dell'assegno di pari grado. Il riferimento anagrafico per stabilire anticipi e posticipi è di 66 anni e 3 mesi per gli uomini (con 35 di contributi), mentre per le donne oscilla tra i 66 anni e 3 mesi delle dipendenti del pubblico impiego e i 63 anni e 9 mesi delle lavoratrici del settore privato. Una soluzione che di sicuro piacerebbe ai lavoratori prossimi alla pensione, ma che secondo l'Inps non è sostenibile: una volta a regime costerebbe allo Stato 8,5 miliardi di euro. L'esempio. Un impiegato di 63 anni con 35 anni di contributi che lavora in un ufficio privato in provincia di Pisa, secondo le norme attuali, potrebbe andare in pensione nel novembre 2018 a 66 anni e 8 mesi e riceverebbe un assegno mensile di 1.489 euro. Se la proposta di Damiano diventasse legge, il nostro soggetto potrebbe andare immediatamente in pensione con una diminuzione dell'assegno del 6% (-89 euro) e riceverebbe 1.400 euro mensili.
LE PROPOSTE: IL RITORNO DELLE QUOTE
La prof a casa nel 2016 invece che nel 2018
Il ritorno delle quote: 100 (o 101) Si torna alle vecchie regole introdotte con la riforma Prodi del 2007: in pratica può andare in pensione anticipatamente chi ha almeno 62 anni di età (63 per gli autonomi), almeno 35 anni di contributi e sommando insieme i due dati totalizza quota 100 (101 gli autonomi). Ad esempio, basteranno 62 anni di età e 38 di contributi oppure 64 anni di età e 36 di contributi e via dicendo. Ci sono due proposte di legge sull'argomento che differiscono per alcuni dettagli, ma la sostanza è la stessa. L'uscita anticipata dovrebbe essere integrata da una decurtazione di 2-3 punti percentuali per ogni anno di anticipo rispetto all'età di riferimento dei 66 anni. Anche questa soluzione secondo l'Inps è troppo costosa. Il presidente Boeri, in audizione alla Commissione Lavoro della Camera, ha detto che significherebbe il ritorno alle pensioni di anzianità per un costo stimato nel 2019 di 10,6 miliardi di euro. «Inaccettabile - secondo il presidente Inps - perché graverebbe sui giovani». L'esempio. Una insegnante 61enne con 38 anni di contributi secondo l'attuale normativa dovrebbe andare in pensione nel settembre del 2018 a 64 anni e 6 mesi con una pensione di 1.846 euro (raggiunge i 41 anni e 10 mesi di contributi.) Se dovessero ritornare le quote potrebbe andare in pensione già nel 2016, con una decurtazione di 74 euro (-4% e assegno da 1.772 euro).
LE PROPOSTE: LA STAFFETTA GENERAZIONALE
Dall’anziano metà stipendio al neoassunto
Staffetta generazionale E' l'ipotesi più complessa perché oltre ai lavoratori coinvolge anche imprese e neo assunti. In pratica, prevede l'uscita anticipata di uno o due anni per i lavoratori anziani attraverso la riduzione dell'orario e della retribuzione. In maniera molto schematica, potremmo ipotizzare che per un paio di anni i dipendenti vicini alla pensione (o anche quelli che hanno già maturato i requisiti) lavorino metà del tempo, prendano metà stipendio e ci aggiungano metà pensione, in attesa di prenderla completa (ma leggermente ridotta) una volta finito questo periodo. Il bello della proposta, di cui ha parlato spesso il ministro Poletti, è che permette di incrociare il tema dell'occupazione giovanile con quello della trasmissione delle competenze tra vecchi e nuovi lavoratori. L'Inps in un primo momento erogherebbe trattamenti più bassi e continuerebbe a incassare i contributi sia dal vecchio che dal nuovo lavoratore, ma proprio dall'istituto di previdenza è arrivato un secco “no” a tale soluzione. L'esempio. Un operaio di 63 anni con 35 di contributi e uno stipendio di 1.600 euro, con le norme attuali andrebbe in pensione nel settembre 2018 con 1.482 euro. Con la staffetta dal 2016 e per tre anni potrebbe accettare una riduzione dell'orario di lavoro del 50%, prendendo 800 euro dall'azienda e circa 719 euro (-3%) dall'Inps, in attesa di ricevere poi un assegno da 1.438 euro.
LA PROPOSTA: OPZIONE DONNA
Via subito rimettendoci il 30 per cento
Contributivo e opzione donna Alla fine dei giochi, questa appare l'unica soluzione praticabile dal punto di vista economico. Ed è già operativa: introdotta in via sperimentale fino a tutto il 2015 dalla legge Maroni, consente alle donne di andare in pensione con 57 anni di età e 35 di contributi (58 per le autonome) a patto però di accettare il sistema di calcolo contributivo per valutare l'esatto importo del trattamento. Niente retributivo o sistema misto, e ciò comporta un alleggerimento dell'assegno di circa il 20-30%. Una soluzione che piace talmente al presidente Boeri che non esclude di prorogarla temporalmente (scade nel 2015) e di estenderla anche agli uomini. Ovviamente su base volontaria. Servono però alcuni correttivi. «Nel caso delle donne - ha spiegato a titolo di esempio Boeri - sono molto frequenti le interruzioni di carriera e il criterio dei 35 anni di contributi è molto restrittivo. Credo che per le lavoratrici non si debbano adottare requisiti troppo stringenti, altrimenti la platea diventa limitata». L'esempio. L'impiegata di uno studio privato con 58 anni di età e 35 di contributi potrebbe andare in pensione già quest'anno con opzione donna. Avrebbe un assegno mensile di 947 euro (-30%, 406 euro in meno). Se invece volesse una pensione calcolata col sistema misto, dovrebbe aspettare l'estate del 2022 per ricevere il trattamento completo: ci arriverebbe a 65 anni di età e con 42 anni e 6 mesi di anzianità contributiva. In questo caso riceverebbe un assegno di 1.353 euro al mese.