«Bene la flessibilità in uscita, ma guai a toccare i diritti maturati dai lavoratori». I primi a seguire il dibattito sulle varie ipotesi di uscita anticipata dal mondo del lavoro sono i sindacati. «Quello della flessibilità in uscita è un argomento importante - spiega Giorgio Cartocci, dell’Inca Cgil -. Ma come sindacato chiediamo che si apra un dibattito più ampio fra le parti sociali. Un dibattito che tocca il tema delle pensioni, ma investe anche gli esodati, i giovani e le nuove povertà. La staffetta generazionale? Mi sembra un'opzione difficile da realizzare». Sulla stessa linea il commento di Sandro Renzoni, esperto di pensioni della Cgil: «Da un pezzo chiediamo che vengano superate le rigidità della Fornero che fino ad ora hanno prodotto solo esodati, chiudendo ulteriormente gli sbocchi lavorativi ai giovani - afferma -. Al momento non abbiamo un'ipotesi unitaria su quale sia la migliore soluzione tra quelle in discussione. Il contributivo? Di certo non si potrà applicare per legge a tutti: su questo la Consulta è già stata chiara e l'ultima sentenza sugli adeguamenti ha ribadito il concetto. I diritti maturati non si toccano. Certo, se fosse su base volontaria e solo per coloro che vogliono andarsene prima, se ne potrebbe discutere, ma credo che il ritorno delle quote porterebbe benefici maggiori». Anche la Confindustria è spettatore interessato della discussione: «Quello della flessibilità in uscita - spiega Alberto Ricci - è più un argomento legato alla giustizia e all'equità sociale, dato che al nostro interno abbiamo sempre gestito tali problematiche con strumenti ad hoc. La staffetta generazionale? È un'idea interessante, ma va costruita bene: servono tempo e passaggi intermedi per consentire la trasmissione delle competenze dagli anziani ai giovani. Se questo percorso non viene fatto, si rischia di ingenerare uno scontro generazionale. Scontro in cui non vogliamo essere coinvolti. Pertanto, aspettiamo le mosse del governo e poi faremo le nostre valutazioni». Rimane abbottonato anche Alessandro Petretto, professore al dipartimento di Scienze per l'Economia e l'Impresa dell'Università di Firenze. «Sono uno strenuo difensore del sistema contributivo - spiega -. In pratica, appoggio la linea di Boeri. Purtroppo, rispetto alle scelte del 1995 con l'introduzione di questo sistema, abbiamo già fatto troppe negazioni. Cerchiamo di non derogare ulteriormente: a parte la “opzione donna”, le altre soluzioni in discussione non garantiscono l'equilibrio del sistema». Ma in cosa consiste il contributivo? È un sistema di calcolo del trattamento pensionistico introdotto dalla riforma Dini del '95. Fino ad allora la pensione era stabilità con il sistema retributivo. L'assegno corrispondeva a una percentuale dello stipendio del lavoratore e pesavano soprattutto le retribuzioni dell'ultimo periodo lavorativo, generalmente le più favorevoli. Il tasso di sostituzione, ovvero il rapporto tra prima rata della pensione e ultimo stipendio era di circa l'80%. Con il contributivo, invece, l'importo della pensione dipende dall'ammontare dei tributi versati nell'arco della vita lavorativa. Tale sistema comporta una consistente diminuzione del rapporto tra pensione e ultimo stipendio, che si attesta intorno al 50-60%. Per consentire il passaggio si sono create tre diverse situazioni: i lavoratori che avevano oltre 18 anni di contributi prima del 1995 sono andati in pensione col retributivo; coloro che nel 1995 avevano meno di 18 anni di contributi vanno in pensione col misto; gli assunti dopo il '95, invece, andranno in pensione col contributivo puro.