ROMA La proroga del blocco della contrattazione collettiva per il pubblico impiego è illegittima perché lede la liberà sindacale. O meglio, lo sarà dal giorno in cui la sentenza della Corte Costituzionale verrà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. Il governo Renzi tira un sospiro di sollievo: l’atteso verdetto della Consulta salva il pregresso, a fronte di una voragine da 35 miliardi di euro sui conti pubblici stimata dall’Avvocatura dello Stato, con un effetto strutturale pari a 13 miliardi di euro a partire dal 2016. Sarebbe stata una batosta ben peggiore di quella subita il mese scorso, a seguito della sentenza della Consulta sulla mancata indicizzazione delle pensioni che ha costretto l’esecutivo a reperire 2,2 miliardi. Stavolta, invece, «chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato»: quel blocco contrattuale e stipendiale, che si è protratto dal 2010 al 2015, non comporterà alcun arretrato da pagare ma avrà come diretta conseguenza la riapertura delle negoziazioni per il rinnovo dei contratti.
UNANIMITA’
A differenza del verdetto sulle pensioni, che spaccò la Corte tanto da rendere determinante il voto del presidente Alessandro Criscuolo, che vale doppio, la camera di consiglio di ieri si è svolta all’insegna del compromesso. E, una volta trovata la mediazione, il verdetto dei 12 giudici è stato unanime. Troppo stringato - appena sei righe - il comunicato diffuso che dichiara, «con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza, l’illegittimità costituzionale sopravvenuta del regime di blocco della contrattazione collettiva del lavoro pubblico». Ora bisognerà attendere le motivazioni che saranno scritte dal giudice Silvana Sciarra, già autrice della sentenza sulle pensioni. E non è detto che ciò avvenga in tempi brevi. Per quanto il giudice Paolo Maria Napolitano, il cui mandato scade il prossimo 10 luglio, abbia partecipato all’udienza e alla camera di consiglio, la sua presenza alla lettura delle motivazioni sembrerebbe non essere indispensabile a norma di regolamento. Il che significa che il governo avrà un po’ più di tempo per venire a capo su come e quando riavviare i negoziati sul trattamento economico dei circa tre milioni di dipendenti pubblici interessati dal blocco.
DIRITTI SINDACALI
Il collegio si sarebbe inizialmente diviso: da una parte i giudici che convenivano con la professoressa Sciarra nel dichiarare l’illegittimità del blocco dei contratti prorogato oltre il triennio 2011-2013; dall’altra coloro che, come Giuliano Amato e Niccolò Zanon, sarebbero stati più propensi a una pronuncia di infondatezza dei ricorsi da accompagnarsi a un “monito” al legislatore perché ponesse «limiti invalicabili» ai blocchi della contrattazione. Nel caso fosse stata accolta la prima tesi, si sarebbe aperto un problema di rimborsi e di oneri per la finanza pubblica, anche se solo per un anno. La soluzione di compromesso è stata trovata estendendo l’illegittimità alle norme che hanno protratto il blocco contrattuale alla fine del 2015, ma allo stesso tempo contemperando la scelta con due ben precise indicazioni. La prima: la bocciatura è avvenuta per la «compressione del diritto fondamentale di libertà sindacale» (art.39 della costituzione) e non tanto per la violazione del diritto a una retribuzione adeguata (art.36). La seconda: si tratta di una illegittimità «sopravvenuta» e non originaria, senza effetti retroattivi, per sanare la quale è sufficiente la riapertura della procedura negoziale che potrà avvenire nei limiti delle risorse disponibili che il legislatore, nella sua discrezionalità, deciderà di destinare. La soluzione è senza dubbio di compromesso, ma per la Consulta non è stato semplice conciliare l’obiettivo costituzionale dell’equilibrio di bilancio (art.81) con la tutela di altri diritti come quelli sindacali.
I PRECEDENTI
Un buon “assist” per sanare il triennio 2011-2013 di blocco contrattuale, e per bocciare la sua prosecuzione al 2015, la Consulta lo ha avuto da due sue recenti pronunce: quella sul fiscal compact del 2013 e la sentenza 219 del 2014. In entrambi era stato dato il via libera ai «sacrifici gravosi» nel pubblico impiego in considerazione della crisi economica eccezionale. Ma con un vincolo ben preciso, e cioè che le misure per il contenimento della spesa valessero per «un periodo di tempo limitato». E invece si è andati oltre.
In 6 anni i dipendenti hanno perso in media 5 mila euro
Se l’effetto fosse stato retroattivo si sarebbe aperta una voragine nei conti dello Stato da 35 miliardi di euro.
I CALCOLI
ROMA Hanno perso oltre cinquemila euro in questi anni di blocco dei contratti, non potranno recuperarli perché la sentenza della Consulta mette una pietra sul passato, ma è chiaro che a questo punto non si accontenteranno di un rinnovo sulla base dell’Ipca, l’indice dei prezzi al consumo armonizzato. Per i dipendenti pubblici è il giorno della riscossa. E i sindacati stanno già affilando le armi. «Credo che il Governo farebbe bene domani a chiamare le organizzazioni di categoria e a cominciare a discutere del rinnovo dei contratti nazionali e della soluzione di molti temi» dice il leader Cgil, Susanna Camusso. «Ora non ci sono più alibi e scuse. Dopo questa sentenza sacrosanta e giusta della Corte Costituzionale speriamo che il governo sani questo 'vulnus' inaccettabile, aprendo subito la trattativa per il rinnovo dei contratti pubblici, come si fa in tutti i paesi civili del mondo dove lo stato datore di lavoro rinnova i contratti con i propri dipendenti attraverso il dialogo con i sindacati» dichiara Annamaria Furlan, numero uno Cisl. In mancanza di una convocazione immediata - avverte Carmelo Barbagallo, leader Uil - «saremmo di fronte a un atto gravissimo contro il quale non resteremmo a braccia conserte».
NON BASTA L’IPCA
Per ora non si sentono cifre, le piattaforme devono essere ancora concordate. «Siamo in campo con una mobilitazione che partirà con le tre grandi assemblee di inizio luglio, con tutti gli Rsu eletti a marzo, le lavoratrici e i lavoratori. Sarà il momento in cui avremo la nostra piattaforma nazionale e quelle di settore, per dire al governo come si possono e si devono rinnovare i contratti» fanno sapere con una nota i segretari generali di Fp-Cgil Cisl-Fp Uil-Fpl e Uil-Pa, Rossana Dettori, Giovanni Faverin, Giovanni Torluccio e Nicola Turco. Una cosa però è certa: i sindacati hanno tutta l’intenzione di andare ben oltre la semplice inflazione programmata. Anche perché con lo stallo dei prezzi e il tasso di inflazione vicino allo zero, gli aumenti sarebbero irrisori. L’ultimo bollettino Istat prevede l’Ipca all’1,1 nel 2016, il che porterebbe a un aumento per gli statali (la retribuzione lorda media di un ministeriale, compresa di salario accessorio da escludere ai fini del calcolo Ipca, è di 28.000 euro) intorno ai 20 euro al mese per di più lordi: meno di un euro al giorno, meno di una tazzina di caffè al bar. Quasi una beffa dopo un blocco durato sei anni, quasi duemila giorni. La sentenza della Consulta dovrà essere letta, quindi, con attenzione. «Un conto è dire che per l’arretrato non c’è automatismo, un altro conto è escludere che la trattativa possa comunque tentare un recupero, magari parziale e una tantum» spiega Faverin.
L’ultimo rinnovo, quello risalente al biennio 2008-2009, fece lievitare la busta paga del dipendete pubblico tra i 70 e i 90 euro a seconda dei comparti (73 enti locali, 78 ministeri, 94 sanità). Poi più nulla, sei anni di vuoto.
LE PERDITE
Secondo la Cgil per i mancati rinnovi i dipendenti pubblici hanno perso 5.400 euro in media (4.800 fino al 2014, 600 euro quest’anno). Anche la Funzione pubblica della Cisl ha elaborato alcune tabelle, divise per categoria: a fine 2014 il ministeriale medio aveva già perso 3.081 euro, un dipendente delle agenzie fiscali 3.856 euro, quello di un ente pubblico non economico (Inps, Inail, Aci Istat) 4.686, un insegnante 2.838, un dipendente del servizio sanitario 3.300, quelli degli enti locali 3.100, delle autorità indipendenti 7.200. E stiamo parlando delle retribuzioni medie per comparto. Ovviamente più lo stipendio è alto, più la perdita per effetto del blocco del contratto è ingente. Un dirigente ministeriale di seconda fascia, ad esempio, ha visto sfumare oltre 9.000 euro di aumenti, quelli di prima fascia anche ventimila.