ROMA Privatizzare l’Atac? E chi se lo piglia un carrozzone così malconcio? Eppure c’è un’Atac che, in silenzio, ha già preso a smontare l’Atac. Il senso di una (possibile) svolta è emerso circa un mese fa con un piccolo episodio di vita aziendale: una mattina uno dei massimi dirigenti dell’azienda è uscito senza preavviso dalla torre degli uffici di via Prenestina, sede centrale Atac, per partecipare ad un incontro improvvisato con una ventina di macchinisti. Una rivoluzione: saltati tutti i livelli gerarchici. Atmosfera operativa. Niente sindacalese. L’episodio - non isolato - ha fatto rumore nei corridoi aziendali perché ha lanciato un segnale di rottura culturale. Si è iniziato ad intaccare quel circuito burocratico-gerarchico- verticale tipico dei carrozzoni.
I MACCHINISTI Anche nel caso dell’Atac-carrozzone, micidiali sponde politiche hanno alimentato un immenso circuito di rendite di posizione: dai dirigenti (61 su meno di 11.800 dipendenti); ai fornitori (sono sempre fermi i filobus figli di una tangenti); ai clienti (l’evasione è fortissima in periferia); ai sindacati che sono addirittura 13; a quei gruppi di lavoratori, in particolare una parte dei macchinisti, che da quasi unmese disonorano Roma con un incredibile sciopero bianco. In via Prenestina però c’è chi legge la rivolta dei macchinisti come una fortissima febbre prodotta della cura da cavallo cui l’azienda è sottoposta da un paio d’anni a questa parte. Cura che dal primo agosto sarà micidiale, perché sul tran tran degli 11.800 dipendenti pioverà una sorta di bomba atomica: il nuovo contratto aziendale firmato lo scorso 18 luglio. Il contratto ruota intorno ad un principio semplicissimo e tutt’altro che punitivo: più lavori (bene), più guadagni. Con un’altra rottura culturale accettata da 4 sindacati su 13, lo hanno chiamato salario di produttività. Parole urticanti per definizione in un carrozzone. Dove una leggenda metropolitana (che trova autorevoli conferme) racconta che gruppi di macchinisti si erano abituati ad autoformarsi la busta paga. Se è noto che i macchinisti romani finora guidavano i treni Metro per 736 ore all’anno (3 ore e 20 minuti al giorno) contro le 1.200 dei loro colleghi milanesi, nessuno ha ancora scritto che i vuoti d’orario così artificialmente creati determinavano quantità stratosferiche di straordinari. Ore di lavoro in più, che molti macchinisti si autoassegnavano. Col risultato che qualcuno di loro l’anno scorso è arrivato a superare le 500 ore annue di straordinario con buste paga mensili gonfiate fin oltre i 3.000 euro netti. Di qui la decisione aziendale appena presa di far timbrare a tutti i dipendenti il cartellino d’ingresso e d’uscita. Scoperta la radice profonda dello sciopero bianco delle Metro ora la domanda è: il contratto fermerà le agitazioni? Il ragionamento che si sente fare fra Via Prenestina e Campidoglio è il seguente: dal primo agosto ogni macchinista passerà da 736 a 950 ore di guida all’anno, dunque gli effetti dello sciopero bianco saranno automaticamente diluiti. Ma ai macchinisti resta un altro strumento di protesta atipico: la malattia. Chi si assenta però (a parte i casi di malattia o infortunio grave) da agosto non percepirà il premio di produttività e dunque si vedrà sgonfiare la busta paga fino al 30% rispetto a quella attuale. Conviene continuare la guerra? A smontare poi altre roccaforti dell’inefficienza Atac, quelle dei controllori e delle officine di manutenzione, dovrebbe pensarci la parte del contratto che prevede dal primo ottobre l’aumento dell’orario settimanale da 37 a 39 ore settimanali (come nella cugina meneghina Atm) per tutti i dipendenti. Le officine apriranno H24, giorno e notte, con l’obiettivo di eliminare la vergogna attuale del fermo quotidiano del 40% dei 2.200 autobus della flotta.