MILANO Entro una decina di giorni parte la svolta all’Atac, l’azienda di gestione del dissestato trasporto pubblico di Roma da risanare per attrarre soci cinesi, tedeschi e francesi. Anche se l’obiettivo della privatizzazione del 40-48% va raggiunto entro fine del 2019, la strada da percorrere è lunga. Il nuovo corso, quindi, parte subito con la nomina del cda al posto di quello azzerato da Ignazio Marino. Sarà snello, di tre membri con un presidente con la rappresentanza legale. Plenipotenziario e capo azienda dovrebbe essere Francesco Micheli, l’attuale direttore generale che avrà pieni poteri nei quali mettere a frutto l’esperienza in Intesa Sanpaolo e prima ancora nelle Poste al fianco di Corrado Passera. Il manager ha fama di risanatore e di abile tessitore di relazioni sindacali e industriali forgiata anche alla guida del comitato affari sindacali e del lavoro dell’Abi. Micheli sta lavorando pancia a terra sul piano che dovrà portare al rilancio. Per tagliare il traguardo della privatizzazione, bisogna ripristinare l’equilibrio economico finanziario. L’Atac ha i conti in profondo rosso: 143 milioni nel 2014, in riduzione rispetto ai 210 milioni del 2013. Per fine anno le perdite dovrebbero scendere a circa 100 milioni grazie anche all’apporto di risorse fresche per 200 milioni annunciate da Marino nell’ambito del ribaltone della governance.
PRODUTTIVITÀ E TURNI La terapia d’urto serve per scongiurare di portare i libri in tribunale. Si volta pagina perchè il disservizio della società che gestisce la mobilità nella capitale con 3milioni di abitanti e 40 milioni di turisti l’anno che si moltiplicheranno con il Giubileo, rappresenta un pessimo bigliettino da visita. Micheli è manager inflessibile che riesce sempre a mantenere il dialogo con la controparte sindacale. E il circolo vizioso sindacato-politica ha creato il dissesto alla base dei conti in disordine conseguenza di mezzi pubblici a corrente alternata anche per il tasso di assenteismo. La svolta deve passare da un recupero di produttività. Micheli vuole un accordo sulla produttività per far risalire i ricavi. L’Atac viene pagata in funzione dei chilometri percorsi. Attualmente sono quasi 900 le corse giornaliere perdute che provocano ritardi e seminano disagio. L’obiettivo è di far crescere la produttività del 10% per autista. Siccome l’azienda comprende non solo il trasporto su gomme, ma anche quello su rotaia di Metro e ferrovie regionali, il piano prevede un aumento dei turni dei macchinisti, facendoli salire dagli attuali 3-4 a 8. Questo significa che ogni guidatore dovrà lavorare mediamente da 730 ore l’anno a 950 con un incremento di circa il 30% che, pertanto, si rifletterà sull’efficienza del trasporto in metropolitana. Da questi interventi, si dovrebbe risalire la china e avvicinarsi al pareggio già il prossimo anno per vedere l’utile nel 2017: sarà lo snodo-chiave della privatizzazione da realizzare mediante cessione del 40-48% a investitori. L’operazione deve avvenire attraverso una gara europea, quindi con il massimo di trasparenza e un percorso che può durare un paio di anni. Contrariamente a certe previsioni, non si farà ricorso al modello Alitalia attuato da Passera nel 2008 con il progetto Fenice di cui - sono pochi a saperlo - Micheli è stato uno degli attori dietro le quinte avendo concepito il contratto di riassunzione dei dipendenti. Quindi niente sdoppiamento fra good company e bad company: non è possibile perchè su Atac, al contrario di Alitalia, non ci sono patrioti e non è ipotizzabile un fallimento pilotato. Nè vale separare la polpa (metro e ferrovie) da cedere ai privati: non lo fa nemmeno Poste dove il BancoPosta è un gioiello. C’è da fare una gara a livello internazionale alla quale invitare controparti cinesi, tedesche e francesi. Difficile possano esserci interlocutori italiani. Le Fs che un paio di volte sarebbero state interpellate, avrebbero dato la disponibilità a prendersi il 100%. Ma il Campidoglio non ne vuol sapere.