ROMA La sentenza della Corte costituzionale che dichiara illegittimo il blocco della contrattazione pubblica è in vigore dal 30 luglio, giorno successivo a quello della pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Ma la strada per la sua applicazione, e quindi della definizione dei rinnovi contrattuali, è ancora lunga e irta di ostacoli, finanziari e giuridici. Le trattative vere e proprie non partiranno prima del 2016, ma a questo punto non è più nemmeno certo che nella legge di Stabilità venga inserita uno stanziamento, per quanto limitato.
Accanto alla questione delle risorse, di per sé complessa in questa fase in cui il governo sta mettendo in fila le varie esigenze, c’è anche il nodo lasciato in eredità da un’altra riforma della Pubblica amministrazione, quella che porta il nome dell’ex ministro Renato Brunetta. Prevedeva, tra gli altri punti, anche la riduzione ad un massimo di quattro dei comparti contrattuali, che attualmente sono undici. Questa operazione doveva essere portata a termine attraverso accordi tra Aran (l’agenzia che rappresenta lo Stato nella contrattazione) e confederazioni sindacali; ma finora non se ne è fatto nulla perché poco tempo dopo la riforma, che è del 2009, è subentrato il blocco dei rinnovi contrattuali. Né le misure più recenti, inclusa la delega approvata poche settimane fa, prevedono interventi per modificare questo punto.
IL DESTINO DELLA RICERCA
Il passaggio è tutt’altro che scontato. Oggi i comparti in cui si articola la pubblica amministrazione sono agenzie fiscali, enti pubblici non economici, aziende, accademie e conservatori, ricerca, ministeri, presidenza del Consiglio, Regioni e autonomie locali, sanità, scuola, università. Alcuni abbinamenti sono relativamente semplici, ma ad esempio ci sono idee diverse su come accorpare scuola ed università e più in particolare sul destino degli istituti di ricerca. Inoltre la materia è spinosa anche all’interno dello stesso mondo sindacale, perché alcune sigle che hanno una loro forza in un determinato settore temono di perderla venendo a confluire in un raggruppamento più ampio.
Un primo giro di confronto sulla definizione dei comparti potrebbe partire nel mese di settembre, a ridosso della definizione della legge di Stabilità. Marianna Madia, ministro delle Pubblica amministrazione, ha spiegato nelle settimane scorse che la trattativa sui rinnovi potrà partire una volta definite nella manovra le risorse finanziarie disponibili. Il che tecnicamente porterebbe al primo gennaio 2016, data di entrata in vigore della legge.
Ma su quali cifre si sta ragionando? Un punto di riferimento è la stima fatta dal ministero dell’Economia nell’ultimo Def (documento di economia e finanza) nella parte dedicata alle cosiddette “politiche invariate”, ovvero le maggiori spese non richieste da norme di legge ma da prassi seguite in precedenza. I rinnovi costerebbero 1,7 miliardi nel 2016, 4,2 nel 2017 e poi importi ancora maggiori negli anni successivi. Ma si tratta di stime prudenti, che suppongono tra l’altro lo scatto immediato degli aumenti retributivi, i quali però - ammesso che si raggiungano le intese - come è avvenuto anche in passato potrebbero anche decorrere da una data più avanzata, ad esempio il primo luglio. Mentre in qualche modo dovrebbero essere “sanati” i cinque mesi del 2015 il cui status ai fini del contratto non è chiarissimo.
LE PRIORITÀ
Dunque lo stanziamento immediato, se ci sarà, potrebbe essere per il 2016 più contenuto, nell’ordine delle centinaia di milioni. Del resto in questo momento la priorità del Statali, strada in salita per il contratto
Oltre alle scarse risorse pesa sui rinnovi la mancata attuazione della riforma Brunetta che doveva ridurre a quattro i comparti.
In bilico anche l’inserimento dei fondi nella legge di Stabilità che per il 2016 si limiterebbero a qualche centinaio di milioni.
EFFETTO CONSULTA
ROMA La sentenza della Corte costituzionale che dichiara illegittimo il blocco della contrattazione pubblica è in vigore dal 30 luglio, giorno successivo a quello della pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Ma la strada per la sua applicazione, e quindi della definizione dei rinnovi contrattuali, è ancora lunga e irta di ostacoli, finanziari e giuridici. Le trattative vere e proprie non partiranno prima del 2016, ma a questo punto non è più nemmeno certo che nella legge di Stabilità venga inserita uno stanziamento, per quanto limitato.
Accanto alla questione delle risorse, di per sé complessa in questa fase in cui il governo sta mettendo in fila le varie esigenze, c’è anche il nodo lasciato in eredità da un’altra riforma della Pubblica amministrazione, quella che porta il nome dell’ex ministro Renato Brunetta. Prevedeva, tra gli altri punti, anche la riduzione ad un massimo di quattro dei comparti contrattuali, che attualmente sono undici. Questa operazione doveva essere portata a termine attraverso accordi tra Aran (l’agenzia che rappresenta lo Stato nella contrattazione) e confederazioni sindacali; ma finora non se ne è fatto nulla perché poco tempo dopo la riforma, che è del 2009, è subentrato il blocco dei rinnovi contrattuali. Né le misure più recenti, inclusa la delega approvata poche settimane fa, prevedono interventi per modificare questo punto.
IL DESTINO DELLA RICERCA
Il passaggio è tutt’altro che scontato. Oggi i comparti in cui si articola la pubblica amministrazione sono agenzie fiscali, enti pubblici non economici, aziende, accademie e conservatori, ricerca, ministeri, presidenza del Consiglio, Regioni e autonomie locali, sanità, scuola, università. Alcuni abbinamenti sono relativamente semplici, ma ad esempio ci sono idee diverse su come accorpare scuola ed università e più in particolare sul destino degli istituti di ricerca. Inoltre la materia è spinosa anche all’interno dello stesso mondo sindacale, perché alcune sigle che hanno una loro forza in un determinato settore temono di perderla venendo a confluire in un raggruppamento più ampio.
Un primo giro di confronto sulla definizione dei comparti potrebbe partire nel mese di settembre, a ridosso della definizione della legge di Stabilità. Marianna Madia, ministro delle Pubblica amministrazione, ha spiegato nelle settimane scorse che la trattativa sui rinnovi potrà partire una volta definite nella manovra le risorse finanziarie disponibili. Il che tecnicamente porterebbe al primo gennaio 2016, data di entrata in vigore della legge.
Ma su quali cifre si sta ragionando? Un punto di riferimento è la stima fatta dal ministero dell’Economia nell’ultimo Def (documento di economia e finanza) nella parte dedicata alle cosiddette “politiche invariate”, ovvero le maggiori spese non richieste da norme di legge ma da prassi seguite in precedenza. I rinnovi costerebbero 1,7 miliardi nel 2016, 4,2 nel 2017 e poi importi ancora maggiori negli anni successivi. Ma si tratta di stime prudenti, che suppongono tra l’altro lo scatto immediato degli aumenti retributivi, i quali però - ammesso che si raggiungano le intese - come è avvenuto anche in passato potrebbero anche decorrere da una data più avanzata, ad esempio il primo luglio. Mentre in qualche modo dovrebbero essere “sanati” i cinque mesi del 2015 il cui status ai fini del contratto non è chiarissimo.
LE PRIORITÀ
Dunque lo stanziamento immediato, se ci sarà, potrebbe essere per il 2016 più contenuto, nell’ordine delle centinaia di milioni. Del resto in questo momento la priorità del governo è trovare i circa 20 miliardi necessari per disinnescare gli aumenti fiscali previsti dalla clausola di salvaguardia e garantire la cancellazione di Imu e Tasi sulle abitazioni principali.
Metà di questa somma deve arrivare dal nuovo piano di riduzione della spesa pubblica che nelle intenzioni di Palazzo Chigi potrebbe giovarsi anche di risparmi derivanti dall’applicazione della riforma della pubblica amministrazione (ad esempio sul fronte delle società partecipate).