«L’era ordita da un pezzo, c’era una lega». Dai tempi della rivolta milanese dei fornai così ben raccontata da Manzoni, nelle italiche narrazioni ricorre puntuale la comoda tendenza ad aggirare il cuore del problema per scaricare la colpa su un presunto complotto: in fondo, un grande vecchio, una congrega di poteri forti, un qualsivoglia gruppo di congiurati, si trovano sempre. Tanto, quando mai si passerà a dar loro un nome e un volto? Il fatto è che se i presunti cospiratori evaporano, le questioni vere rimangono. Come stenta a capire il sindacato, investito in questa calda estate da una ripresa di polemiche sulla sua effettiva capacità di interpretare e rappresentare un mondo del lavoro in tumultuoso quanto radicale cambiamento. Così alcuni settori hanno reagito accusando i media di aver voluto trovare a tutti i costi un titolo eclatante, perché a corto di notizie, o arrampicandosi sugli specchi per negare le difficoltà; altri, più responsabili, hanno invece ammesso la crisi, sottolineando che occorrono misure innovative per farle fronte. A metterla sul terreno delle schermaglie dialettiche, si perde solo tempo: meglio analizzare i fatti, possibilmente separati dalle opinioni. E i fatti dicono che nello sfarinamento generalizzato della rappresentanza, il sindacato rimane l’organizzazione più solida, ancora capace di mobilitare le persone, in grado di rappresentare un interlocutore autorevole sul tema del lavoro. Però sono altrettanto reali alcuni nodi tutt’altro che secondari: il calo degli iscritti, al di là della polemica sui numeri; la forte incidenza tra di essi dei pensionati e la disaffezione crescente tra i giovani; la difficoltà a interpretare la domanda della sempre più vasta area dei non garantiti; il proliferare delle sigle, spesso inversamente proporzionale alla rappresentanza effettiva (undici sindacati solo alla Camera, per 1.521 dipendenti); le indecenti retribuzioni di alcuni dirigenti. Alle quali c’è stato chi ha saputo reagire: un anno fa, la Cisl di fatto ha imposto a Bonanni di dimettersi in quattro e quattr’otto, quando è esplosa la vergogna dei suoi emolumenti. Ma quando un esponente di periferia ha denunciato altre situazioni analoghe, lo ha espulso: sarà stato sbagliato il modo di farlo, però la sostanza del problema rimane. Il sindacato nel suo complesso non può evitare di misurarsi con un dato di fatto inoppugnabile: ha una cattiva immagine, non solo nell’opinione pubblica ma pure tra gli stessi lavoratori. Solo fumo, o anche arrosto bruciato? A metà anni Novanta, la Lega di Bossi raccoglieva larghi consensi di voto in fabbrica; lo stesso accade oggi ai Cinque Stelle di Grillo. E nei sondaggi, il sindacato raccoglie la fiducia di appena un italiano su cinque; tra gli stessi elettori di sinistra non arriva a uno su tre. Certo, sconta la difficoltà generale di cui soffrono tutte le realtà associative, però proprio perché rimane una realtà robusta, e con un’importante storia alle spalle, il sindacato non può eludere il compito di mettere mano a un radicale rinnovamento interno che investa la struttura, i metodi, il linguaggio, la dirigenza. E che faccia leva su un progetto centrato più sul lavoro che sui lavoratori: dando cioè voce non solo a chi l’impiego ce l’ha con le dovute e giuste garanzie, ma anche a chi deve gestirlo tra mille ostacoli e precarietà, e soprattutto a chi ne è senza. Ricordando quello su cui insisteva Montesquieu: un uomo è povero non già quando non ha niente, ma quando non lavora.