ROMA A mettere i puntini sulle «i» ci ha pensato, come al solito, Matteo Renzi. La riforma delle pensioni, se si farà, dovrà essere a costo zero. Una linea decisamente in controtendenza con quella annunciata solo qualche giorno fa dal ministro del lavoro, Giuliano Poletti, che invece aveva sostenuto che non necessariamente l’introduzione di principi di flessibilità nel sistema pensionistico avrebbero dovuto essere senza costi per lo Stato. Ma cosa significa a costo zero? «L’introduzione di un principio di flessibilità», spiega Alberto Brambilla, ex sottosegretario al Welfare e presidente del comitato scientifico di Itinerari previdenziali, «ha un costo iniziale dovuto al fatto che l’Inps deve pagare un numero di pensioni maggiori. Ma essendo queste pensioni di importo minore», aggiunge, «nel tempo quell’anticipo sarà recuperato». Il problema, insomma, è proprio come finanziare questa fase iniziale. Sul tavolo del governo si fronteggiano sostanzialmente due proposte. La prima è quella firmata dal sottosegretario all’Economia Pierpaolo Baretta e dal presidente della Commissione lavoro Cesare Damiano. Questa proposta prevede la possibilità di anticipare la pensione fino a 62 anni, pagando per ogni anno di anticipo una penalizzazione del 2%. Secondo le stime dell’Inps questo schema avrebbe un costo insostenibile per le casse dello Stato: 8,5 miliardi. Damiano e Baretta contestano il dato sostenendo che in realtà l’esborso sarebbe meno della metà. Comunque si sono detti disponibili a rivedere le penalità, ipotizzando un sistema crescente che, alla fine, comporterebbe mediamente una penalizzazione del 3,5% per anno. Su questa impostazione, come detto, c’è lo scetticismo del presidente dell’Inps Tito Boeri. Che, a sua volta, ha già messo nero su bianco una proposta e l’ha inviata al governo. Nello schema Boeri, che lui stesso ha ribattezzato «flessibilità sostenibile», si potrebbe lasciare il lavoro in anticipo ma con un ricalcolo con il sistema contributivo dell’assegno. Secondo i sindacati, che vedono questa proposta come il fumo negli occhi, si rischierebbe un taglio delle pensioni di oltre il 30%. Boeri sostiene il contrario, che la riduzione dell’assegno non andrebbe oltre il 3-3,5% per ogni anno di anticipo. La fase iniziale della flessibilità, nell’impostazione di Boeri, verrebbe finanziata da una «armonizzazione» dei tassi di rendimento garantiti ai contributi. Significa che le gestioni, come quella dei ferrovieri, dei telefonici, degli elettrici, che hanno trattamenti migliori, si vedrebbero tagliate le loro prestazioni. Tecnicamente ineccepibile, politicamente impraticabile: verrebbe subito bollato come un taglio delle pensioni. Cosa resta allora sul tavolo?
LA TRACCIAUna traccia la fornisce il vice ministro dell’Economia Enrico Morando. «La riforma», spiega al Messaggero, «si farà quando ci saranno condizioni finanziarie tali per cui non dobbiamo prendere risorse aggiuntive dal bilancio pubblico, anche perché», aggiunge, «abbiamo una spesa sociale che è già sbilanciata sulla previdenza. Se ci sono risorse disponibili vanno usate per le situazioni di povertà assoluta». Un modo per tenere insieme le due esigenze, iniziare a introdurre un principio di flessibilità, e andare incontro alle situazioni di povertà, in realtà esiste. L’ipotesi sul tavolo sarebbe quella di permettere la flessibilità in uscita solo a coloro che non hanno il lavoro, o perché sono esodati o perché disoccupati. In questo modo il costo potrebbe essere prossimo allo zero, perché se da una parte lo Stato permetterebbe di andare prima in pensione, dall’altro non dovrebbe più versare contributi figurativi o pagare assegni di disoccupazione. Nel 2016 intanto scatterà una vera e propria stangata per le donne del settore privato con l’aumento dell’età di vecchiaia nel complesso tra scalino e aspettativa di vita di un anno e 10 mesi. Le donne del privato dal 2016 dovranno aspettare i 65 anni e 7 mesi a fronte dei 63,9 fissati fino a quest'anno. Infine il possibile rinvio e l’assenza di risorse preoccupano i sindacati, che ieri in coro hanno protestato.