ROMA Come per il nucleare. Come per l’acqua. Il partito del Nimby, not in my backyard, non nel mio giardino, apre un nuovo fronte, quello della ricerca e della coltivazione di idrocarburi nell’Adriatico e nel Mar Ionio. Ieri otto Regioni hanno deciso di far approvare dai propri consigli una serie di quesiti referendari in una formulazione identica per abrogare l’articolo 38 del decreto Sblocca Italia, il provvedimento voluto dal governo Renzi e con il quale la ricerca di petrolio e gas nei mari italiani era stata dichiarata strategica. I quesiti chiedono l’abrogazione anche di altre norme, come quella che permette al governo di esercitare poteri sostitutivi in caso di mancato accordo nella conferenza unificata.
Le Regioni che hanno deciso di ricorrere allo strumento del referendum sono la Basilicata, la Puglia, le Marche, il Molise, l’Abruzzo, la Sardegna, la Sicilia e la Calabria. Il primo consiglio, quello della Basilicata, è convocato per oggi, mentre Puglia, Marche, Molise e Abruzzo delibereranno il 22 settembre. Poi a seguire le altre Regioni. In questo modo la domanda di referendum sarà depositata entro il 30 settembre, data ultima per poter fare in modo che la consultazione si tenga il prossimo anno. L’iniziativa «No Triv» delle Regioni si aggiunge a quella presentata da Possibile, il movimento di Pippo Civati, che pure stava raccogliendo le firme per il referendum.
LE POSIZIONI
La questione delle trivelle in Adriatico è da tempo molto dibattuta. L’ex premier, Romano Prodi, proprio dalle colonne del Messaggero, aveva spinto a considerare gli enormi benefici per la bolletta energetica, per gli investimenti (ne sono previsti per 4,8 miliardi) e per l’occupazione, dal possibile sfruttamento delle enormi risorse energetiche sotto il Mar Adriatico. Anche perché se l’Italia blocca le trivelle, la dirimpettaia Croazia ha già praticamente assegnato le concessioni di sfruttamento nello stesso mare, appropriandosi in esclusiva di una risorsa comune. In una recente audizione parlamentare, il capo di Stato Maggiore della Marina, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgio, aveva lanciato l’allarme delle cosiddette trivellazioni diagonali. «In tal modo», aveva spiegato, «un Paese terzo può o potrebbe avere i mezzi e la tecnologia (oggi diffusa) per prelevare a nostra insaputa le riserve italiane anche nelle nostre acque territoriali». Insomma, se le trivelle italiane si fermano, quelle degli altri Paesi ne possono approfittare.