Pagare meno, pagare tutti. Quante volte questo slogan è risuonato, nella vita pubblica italiana, a proposito delle tasse? Domenica se ne è avuto l’ultimo aggiornamento, legato a un aspetto molto piccolo, ma concreto e che tocca la vita di tutti: la televisione. O meglio: il servizio pubblico radiotelevisivo, dai cui schermi il presidente del Consiglio ha annunciato che potremmo avere dal prossimo anno il canone direttamente conteggiato nella bolletta elettrica. Obiettivo: lotta all’evasione, visto che il canone Rai è tra le tasse meno pagate d’Italia e forse del mondo, col 27% di contribuenti che sfuggono. Mettendo il canone in bolletta - questo l’argomento - si riusciranno a raggiungere gli evasori e così a ridurre il peso su chi già adesso paga. Mettiamo che si possa fare, anche se le obiezioni giuridiche sono tante, e già denunciate dai colossi dell’elettricità, che non ci stanno a fare gli esattori per il governo. Però, anche mettendo tra parentesi questi aspetti pratici non indifferenti, ci sono due cose che non tornano.
La prima è nell’ammontare della riduzione del canone: da 113 a 100 euro l’anno, meno di una pizza al piatto. Possibile che tutta l’evasione recuperata valga così poco? No: nei conti del governo, il grosso della somma dovrebbe andare a ripianare il deficit del servizio pubblico. Quindi il ragionamento non è: facciamo pagare tutti, così tutti pagheremo di meno; ma: facciamo pagare tutti, per dare più soldi alla Rai. Legittimo, ma sarebbe bene dire le cose come stanno. La seconda parola che non torna è nella stessa espressione: lotta all’evasione. Abusata e consumata, è un sempreverde della politica italiana. Evoca un’ingiustizia a cui tutti vorremmo porre rimedio, e sollecita un senso d’impotenza: non ci riusciremo mai. Due sensazioni sbagliate: detenere capitali o intere società in Lussemburgo forse è un po’ più grave che nascondere un 24 pollici nel salotto, e non è vero che contro l’evasione non si può fare niente e non si è mai fatto niente. Un recente studio comparso su Etica ed Economia, per esempio, misura esattamente l’effetto della cosiddetta “tax compliance”, ossia la variazione dell’atteggiamento fiscale dei contribuenti al cambiare del governo. Esamina i governi dal 1996 al 2005. Dal 2001 in poi, si dimostra, i redditi fiscali di artigiani e commercianti subiscono un tracollo rispetto a quelli dei dipendenti privati: col passaggio dal centrosinistra (quello di Prodi e dell’odiato Visco) al centrodestra, a parità di altre condizioni e per il solo effetto del cambiamento di governo, scendono i redditi dichiarati al fisco. Questione di politiche e leggi, ma anche di messaggi che arrivano all’opinione pubblica. E il messaggio degli ultimi tempi non è di quelli che alzano la “tax compliance”: la delega fiscale, dopo gli stop dovuti alle norme “salva-Berlusconi”, alla fine ha chiuso il suo iter in modo non proprio arcigno, per gli evasori, a cominciare dal fatto che è aumentata la soglia sotto la quale non scatta il processo penale. Mentre i correttivi tecnici introdotti con la legge di Stabilità dell’anno scorso stanno facendo entrare più soldi dall’evasione dell’Iva ma non arrivano a quella enorme, e legalizzata, delle società che vanno a mettere la loro sede fiscale in Lussemburgo o a Londra. È strano che un comunicatore come Renzi non abbia pensato al fatto che il contribuente nel suo salotto possa essersi sentito un po’ offeso, dall’essere accomunato ai grandi evasori. Ma è vero che anche i piccoli comportamenti diffusi dicono tanto, della vita di un Paese: non è un caso se l’evasione del canone per il servizio pubblico è del 27% in Italia, del 5% nel Regno Unito e dell’1% in Francia o Germania. Qui però scatta l’altra domanda, ed è: quale servizio pubblico? Possibile che, nell’era in cui nella comunicazione è cambiato tutto - dalla tecnologia alla rete, e alla vigilia dell’arrivo in Italia della rivoluzione di Netflix - la grande riforma della Rai sia tutta nel dare più potere al direttore generale e mettere in bolletta il canone, magari legandolo non solo al possesso della tv ma anche dello smartphone, senza interrogarsi su senso e contenuti del servizio pubblico stesso?