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Data: 08/10/2015
Testata giornalistica: Il Messaggero
Intervista a Giorgio Squinzi - «Non si tornerà indietro il contratto va ribaltato». Il presidente della Confindustria racconta il retroscena dello strappo con il sindacato. Il decalogo sulle nuove relazioni industriali: adeguamenti salariali legati alla produttività.

Presidente Giorgio Squinzi, lo strappo è forte. Non capita tutti i giorni di vedere la Confindustria che rovescia il tavolo delle trattative con le tre sigle sindacali. Adesso sarà più difficile trovare il punto d’incontro sulle modalità cui dovrebbero ispirarsi i futuri contratti.
«Chi vivrà vedrà. D’altro canto bisognava mettere un punto, dare una svolta. Sono mesi che parliamo senza approdare a nulla. Cgil, Cisl e Uil si dicono d’accordo, sia pure con qualche differenza tra loro, sul fatto che bisogna cambiare. Poi, quando si tratta di sedere al tavolo tecnico se ne presenta uno su tre. Così non si va da nessuna parte e allora è giusto che ciascuno si assuma le proprie responsabilità».
Il leader della Cgil Susanna Camusso definisce le sue dichiarazioni «stranianti». Sostiene che siccome il pallone non è quello che Confindustria vorrebbe, lei trova più comodo abbandonare il campo evitando il confronto.
«E’ tutto il contrario. È un po’ come se uno volesse giocare e tutti gli altri no. Allora, ad un certo punto, uno si stufa, mette il pallone sotto braccio e se ne va. Tra l’altro, quel pallone è da tempo decisamente sgonfio».
Eppure una decina di giorni fa sembrava che le cose stessero imboccando la strada giusta. Quell’incontro riservato tra lei e la Camusso durante la visita a Expo era sembrato un importante passo avanti.
«Anche a me era parso così. Tant’è che dopo esserci confrontati per più di un’ora abbiamo concordato un appuntamento per l’indomani insieme alle altre due sigle. Lo scopo era appunto di avviare insieme un percorso finalmente concreto. Invece all’appuntamento si è presentata solo la Cisl, e la Camusso nemmeno ha ritenuto di avvisarci».
Che cosa chiede in sostanza Confindustria?
«Sul fronte dell’economia abbiamo alle spalle sette anni tremendi. E la congiuntura attuale non lascia intravedere una ripresa facile. E’ perciò illogico che si proceda su sentieri vecchi, privi di collegamento con il reale. Le nuove relazioni industriali si dovranno perciò ispirare a un concetto irrinunciabile: la produttività, ingrediente fondamentale per determinare il successo di un’impresa sul mercato. Del pari, non si può distribuire ricchezza se prima non viene creata, come invece accade tuttora a causa di un meccanismo obsoleto».
Altrettanto irrinunciabile per gli imprenditori sembra essere il mantenimento in vita del contratto nazionale.
«Sicuro, perché i contratti di categoria costituiscono la base del nostro modello di relazioni industriali. Oggi però chiediamo di cambiare le regole per i rinnovi. Risalgono a oltre 20 anni fa, e il mondo è completamente cambiato. Invece Cgil, Cisl e Uil vorrebbero il contrario: prima la firma dei contratti nazionali di categoria e poi la riforma delle regole generali con cui fare i contratti. Così se ne riparlerà tra quattro anni e nel frattempo le aziende continueranno a subire un salasso ingiusto».
Perché ingiusto? E’ stata una scelta degli imprenditori accettare che l’adeguamento del salario all’inflazione fosse predeterminato. Se poi il costo della vita è cresciuto in misura minore rispetto a quello fissato non è colpa del sindacato.
«Non si tratta di colpe ma del rispetto degli accordi. Premesso che noi i contratti li abbiamo sempre rispettati, il fatto che in passato si sia optato per questa scelta non vuol dire che deve essere per sempre così. Il mondo cambia, abbiamo vissuto un crisi più grave e più lunga di quella del 1929, e dunque tutti si devono adeguare. Sa quanto è costato alle aziende italiane il meccanismo dell’Ipca per l’ultimo contratto triennale? Almeno 4,1 miliardi. E ciò mentre molte imprese faticavano a stare in piedi».
Secondo i sindacati il fatto di voler modificare l’Ipca è però la prova che con il nuovo contratto proposto da voi, i prossimi stipendi potrebbero risultate ridotti. É davvero così?
«Falso. Nessuno ha mai parlato nè di riduzione né di moratoria. Semplicemente gli aggiustamenti del salario vanno legati ai risultati aziendali. Quindi la determinazione dell’adeguamento non può che avvenire ex post. Funziona così ovunque ».
C’è chi sostiene che lo strappo con il sindacato annunciato da lei sia una sorta di viatico alla riforma dei sindacati che il premier Matteo Renzi sta accarezzando da tempo. Qualcuno sostiene addirittura che la rottura sarebbe stata in un certo senso concordata.
«Sciocchezze. Anzitutto perché se Renzi vuole intervenire sulla rappresentanza non ha bisogno certo del nostro viatico».
Nemmeno se si tratta di mettere finalmente a nudo i veri bilanci dei sindacati?
«Certo sarebbe un bel passo verso la trasparenza. Non si capisce davvero perché il sindacato non mostri la sua contabilità».
Dica la verità: come imprenditore a lei non spiacerebbe un modello renano, dove il sindacato si assume responsabilità dirette nell’impresa e quindi le relazioni industriali vengono gestite soprattutto in funzione della crescita aziendale.
«Direi una bugia se affermassi che non mi piace il modello tedesco nel suo insieme. Del resto la Germania è cresciuta anche grazie a quel sistema. Naturalmente non avrebbe senso calarlo in Italia senza gli opportuni aggiustamenti».
Torniamo alle questioni contrattuali. Lei ha annunciato un decalogo di Confindustria «sulle cose che si possono fare in eventuali trattative che le singole categorie ritengono di portare avanti». A che punto è?
«Premesso che le singole categorie sono libere di gestirsi come meglio credono nell’ambito della loro autonomia, l’intenzione è di fornire indirizzi comuni che non entrino in conflitto con le riforme del governo. Sicché abbiamo estratto da un documento complessivo, dove si affrontano temi di spessore come il nuovo welfare, le linee entro le quali gestire relazioni industriali più adeguate ai tempi».
Può anticipare alcune di queste regole?
«La prima è che non si deve assolutamente rinunciare ad applicare le novità del Jobs act. Per chi non l’avesse ancora capito, gli imprenditori vogliono i contratti a tempo indeterminato. Le acrobazie contrattuali cui siamo stati costretti nel passato hanno fatto male alle aziende e ai lavoratori. Soprattutto ai giovani in cerca di occupazione».
Nel decalogo vengono affrontati anche i livelli di contrattazione territoriali?
«Certo, sono il secondo suggerimento che recita più o meno così: non si deve assolutamente introdurre un terzo livello di contrattazione territoriale».
E per quanto riguarda i minimi tabellari di garanzia?
«Nel decalogo si parla ovviamente e diffusamente anche di quelli. Per ora però non posso aggiungere altro. Tra qualche giorno verrà reso noto il documento nella sua interezza».
A proposito di una nuova eventuale convocazione del tavolo delle trattative, ieri sera la Camusso è sembrata accusare il colpo e ha lasciato trapelare qualche apertura, osservando però in tono polemico che «tra gente del mestiere i rinnovi contrattuali si possono fare anche in poco tempo».
«Se la volontà di raggiungere un accordo è concreta, lo vedremo dai fatti. Quanto alla gente del mestiere, forse qualcuno non ha ancora capito che fare il presidente di Confindustria non è un mestiere. E comunque io non sono un mestierante».

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