La notizia delle dimissioni, chieste, invocate, pretese, di Ignazio Marino, raggiunge Matteo Renzi mentre nel tardo pomeriggio entra nel museo Ferrari di Modena. Il commento del premier con i suoi, determinato a marcare una distanza plastica e fisica dal drammone capitolino, è lapidario: «Era ora, ma è troppo tardi. Da mesi andava cacciato».
Nel quartier generale del Nazareno e a palazzo Chigi però nessuno festeggia. Primo, perché il Pd romano ne esce a pezzi e le elezioni anticipate in primavera sono date praticamente per perse. Secondo, perché quei venti giorni di tempo «per ripensarci» che si è dato Marino, fanno temere «colpi di coda» del sindaco. E proprio sul tema più delicato: la lotta alle infiltrazioni mafiose.
Eppure, al Nazareno e nelle stanze del governo provano a guardare al bicchiere mezzo pieno. Con lo sfratto di Marino tutto, o molto, cambia. Finirà la distanza e il gelo tra palazzo Chigi e il Campidoglio. E un commissario, indicato dal governo, gestirà il Comune e il Giubileo finalmente in sintonia con Renzi. «E se l’Anno Santo andrà bene», dice una fonte accreditata, «le stime danno un possibile aiuto al Pil dello 0.5-0.7%. Quello che ci serve...». Inoltre, il premier potrà tornare a incontrare i capi di Stato stranieri nella Capitale e non essere più costretto, come ha fatto negli ultimi mesi, a peregrinare per l’Italia con i suoi bilaterali per evitare di trovarsi accanto l’inviso sindaco.
LO SFRATTO
Il pressing di Renzi per ottenere la testa di Marino si chiude all’alba, dopo che nella notte ha concordato (non senza «gravi turbolenze») la linea con il commissario romano e presidente del Pd, Matteo Orfini: «Game over, per Marino è finita. O se ne va da solo, o lo cacciamo». Ed è finita perché, nonostante la chance estiva concessa al sindaco con l’avvio della “Fase2” e il rilancio della giunta, Marino adesso risulta «indifendibile»: bene che vada passa per bugiardo e probabilmente verrà accusato di peculato e di falso in atto pubblico. Chiaro il riferimento ad alcune presunte ”cene istituzionali” che sembrerebbero fasulle.
Ma Marino, in barba all’ultimatum, resiste. Così all’ora di pranzo da palazzo Chigi fanno sapere di una telefonata tra Renzi e Orfini in cui «c’è piena condivisione sulle dimissioni del sindaco». Poi, dato un mandato secco al commissario romano («caccialo») e agli assessori a lui vicini (dimettetevi»), Renzi-rottamatore parte e se ne va a Bologna a inaugurare una mostra fotografica. Dello psicodramma romano se ne occupa tra una tappa e l’altra in Emilia. Sul futuro della Capitale il premier lascia trapelare solo un’intenzione: «Dovremo scegliere un candidato d’eccellenza, un nome dal prestigio indiscutibile», uno della società civile. «Anche perché», è il ragionamento fatto al Nazareno, «il Pd romano è un disastro e ha perso ogni collegamento con la città. Dunque...».
Dunque «va rifondato da zero». E dunque serve qualcuno, in vista delle elezioni previste in maggio, che possa scongiurare una sconfitta data per certa. Non Roberto Giachetti, che del resto si chiama fuori. Neppure Paolo Gentiloni o Marianna Madia. E neanche Orfini, anche lui tutt’altro che interessato a tentare un’impresa che appare, ai renziani del Giglio Magico, «un suicidio politico». Meglio, molto meglio, sarebbe il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, che in più occasioni ha scandito un niet ciclopico. Ma che Renzi sarebbe intenzionato a corteggiare ugualmente. Oppure, il presidente del Coni, Giovanni Malagò, in ottimi rapporti con il premier.
Tale è lo scoramento di fronte a sondaggi che danno nella Capitale i Cinquestelle e Alfio Marchini nettamente in testa, che tra i renziani c’è chi studia un modo per rinviare le elezioni in autunno, in modo da sfruttare il traino del referendum confermativo della riforma costituzionale: «Si potrebbe fare una legge per dare alla Capitale, in quanto area metropolitana, autonomia in materia elettorale». E c’è chi arriva al punto di pensare di convergere su Marchini: «Quando sei messo così male non corri da solo, ma ti aggreghi. Dunque il candidato o ce lo facciamo suggerire dal Papa, oppure è meglio sostenere Marchini». Segue battuta di un altro renziano: «Alfio sa di poter vincere con il centrodestra, mica sarà tanto scemo da allearsi con noi...».
Di sicuro c’è che Renzi è tentato di archiviare, per l’importante tornata elettorale di maggio che vedrà al voto città del calibro di Milano, Napoli, Torino e Bologna, lo strumento delle primarie. La ragione la spiega Michele Anzaldi, il primo renziano insieme a Lorenza Bonaccorsi a chiedere in tempi non sospetti l’addio di Marino: «Visto come siamo messi, la prima cosa è ricompattare e rifondare il partito e poi individuare un candidato forte e condiviso. A quel punto sarebbe una jattura andare alle primarie».