ROMA Il sistema previdenziale italiano pesa troppo sui conti pubblici e anche su quelli privati. Con la riforma Fornero del 2011, che ha innalzato l’età pensionabile ed esteso a tutti il metodo di calcolo contributivo, la sostenibilità finanziaria è migliorata ma non siamo ancora al sicuro. Quel 15,7% di Pil utilizzato per pagare le pensioni è troppo alto. Soprattutto in un contesto di bassa crescita. E il conto per le tasche dei privati, aziende e lavoratori, è eccessivamente salato con quel 33% di salario lordo (23,81% a carico dell’azienda, 9,19% a carico del dipendente) versato come contributi. Tutti gli altri paesi industrializzati se la cavano con molto meno. La Svizzera - che pure è seconda in questa classifica - sta oltre sei punti sotto di noi. Sul podio al terzo posto c’è la Finlandia dove i contributi sono al 24,8%. E in Francia i contributi si “mangiano” solo il 21,2% del salario, ovvero quasi dodici punti in percentuale meno di noi. Una distanza siderale. Lo dice l’Ocse nel rapporto “Pensions at a glance 2015”. Il rischio per chi si trova sul podio di questa classifica, avverte l’organizzazione, non è da poco: livelli troppo alti di contribuzione obbligatoria infatti «possono abbassare l’occupazione complessiva e aumentare il sommerso».
Con contributi così alti abbiamo anche gli assegni più generosi? Secondo il rapporto si. Il tasso di sostituzione netto delle pensioni in Italia rispetto al salario medio (in parole povere, il grado di copertura della pensione rispetto allo stipendio) è infatti pari al 79,7%, mentre la media Ocse si ferma al 63%. Ma se attualmente le nostre pensioni sono «relativamente generose», non sarà così per i giovani. L’aumento dell’età pensionabile, per esempio, ha aumentato il tasso di occupazione tra gli over 55 di ben 15 punti (ora è al 46%), ma di contro ha reso più difficile per i giovani trovare un lavoro regolare. E poi il precariato con i contributi altalenanti, e lo stesso metodo di calcolo contributivo: tutti fattori che decurteranno gli assegni previdenziali di chi oggi è giovane. O delle donne che spesso hanno buchi contributivi perché si sono dedicate ai figli piccoli o ai genitori anziani. «L’adeguatezza dei redditi pensionistici può essere un problema per i futuri pensionati», evidenzia l’Ocse. Che teme il rischio povertà per ampie fasce della popolazione.
ULTERIORI SFORZI
Il quadro non è roseo nemmeno per la sostenibilità finanziaria dell’intero sistema. Che è migliorato - l’Ocse lo riconosce - con la riforma Fornero del 2011, ma non ancora abbastanza. Nel 2010-2015, le pensioni pubbliche in Italia hanno assorbito il 15,7% del Pil, quasi il doppio rispetto alla media Ocse (8,4% del Pil). Tra i paesi Ocse ci supera solo la Grecia (16,2%). Gli Stati Uniti, per dire, sono al 4,9%. Ma Oltreoceano, si sa, non brillano per il welfare. In Norvegia e in Danimarca invece sì, e sono al 9,9% e al 10,3% del Pil. La Germania è al 10% e il Regno Unito al 7,7%. Più vicina a noi la Francia con il 14,9% . Tornando all’Italia, il fatto è che nonostante le maglie più strette della Fornero, tra invecchiamento della popolazione e crescita modesta, le cose rimarranno più o meno così per lungo tempo: nel 2045 le pensioni incideranno per il 15,5% sul Pil, e nel 2060 saremo al 13,8%, appena due punti in meno rispetto ad oggi. Di qui la richiesta di «ulteriori sforzi negli anni a venire». Intanto c’è da far fronte alla tegola della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il blocco dell’indicizzazione per le pensioni superiori a tre volte il minimo: determinerà - dice l’Ocse - «un impatto sostanziale sulla spesa pubblica». La ricetta proposta per il medio e lungo periodo è quella di stimolare la partecipazione dei lavoratori anziani: oggi l’età effettiva di pensionamento (61,4 anni per gli uomini e 61,1 per le donne) rimane la quarta più bassa dell’Ocse.