ROMA Nel 2014 i pensionati italiani, che per molte famiglie rappresentano l’unica fonte di reddito, scendono a quota 16,3 milioni (134mila in meno rispetto al 2013) e metà di essi percepisce meno di 12.532 euro l’anno, l’equivalente di 1.045 euro al mese. In media, il reddito pensionistico lordo è di 17.040 euro (più 400 euro rispetto all’anno precedente) pari a un reddito medio netto di 13.647 euro (1.140 euro al mese). È questo il quadro che emerge dal rapporto Istat sulle condizioni dei pensionati 2013-2014. Ancora una volta l’indagine dimostra che le donne, che sono il 52,9% dei pensionati, ricevono meno: mediamente importi di circa 6mila euro inferiori a quelli masschili. L’Istat sottolinea come il cumulo di più trattamenti pensionistici sullo stesso beneficiario è meno frequente tra i pensionati di vecchiaia (cumula più trattamenti il 27,1%), mentre è molto più diffuso tra i pensionati superstiti (67,6%), in grande maggioranza donne (87%). Netta la discrepanza degli assegni legata al titolo di studio: per i laureati il reddito lordo pensionistico (circa 2.490 euro mensili) è più che doppio di quello delle persone senza titolo di studio o con al più la licenza elementare (1.130 euro). Nel 2013, tra i beneficiari, le pensioni di vecchiaia e anzianità rappresentavano la fonte principale di reddito (in media il 64% del loro reddito complessivo), seguite dai redditi da lavoro (16%); tra le pensionate, invece, l’Istat sottolinea come sul fronte dei redditi sia decisamente importante l’apporto delle pensioni di reversibilità (27,6%) e quello delle assistenziali che è più elevato rispetto agli uomini (9,5%). Quel che è certo è che per molte famiglie l’assegno pensionistico è l’unica fonte di reddito. Significativo il dato relativo a famiglie in cui sono presenti pensionati: il loro numero è stimato dall’Istat in 12 milioni 400 mila: ma soprattutto per quasi i due terzi di queste (63,2%) i trasferimenti pensionistici rappresentano oltre il 75% del reddito familiare disponibile. Addirittura per un quarto di queste famiglie, ovvero il 26,5%, sono l’unica fonte di reddito. La stima del reddito netto medio di tali famiglie è di 28 mila 480 euro, circa 2mila euro inferiore a quello delle famiglie senza pensionati (pari a 30.400 euro). Tuttavia nel 2013 il rischio di povertà tra le famiglie con pensionati è stimato essere più basso di quello delle altre famiglie (16% contro 22,1%), a indicare come, in molti casi, il reddito pensionistico possa mettere al riparo da situazioni di forte disagio economico. Comunque il rischio di povertà è elevato tra i pensionati che vivono soli (22,3%) o con i figli come genitori soli (17,2%). La situazione è più grave quando il pensionato con il proprio reddito deve sostenere anche il peso di altri componenti adulti che non percepiscono redditi da lavoro: l’Istat stima che circa un terzo di tali famiglie (31,3%) è a rischio di povertà. «È grazie ai pensionati se le famiglie italiane sono riuscite a superare la crisi di questi anni» spiega il segretario generale della Fnp-Cisl, Gigi Bonfanti.
effetto della riforma fornero
Lo “scalone” aumenta l’età minima, lavoratrici a riposo 2 anni più tardi
ROMA Uno scalone lungo quasi due anni: è quello che attende nel 2016 e 2017 le lavoratrici dipendenti, che dovranno rimanere al lavoro ventidue mesi in più prima di poter accedere alla pensione di vecchiaia. A patto che abbiano un’anzianità contributiva di almeno 20 anni, un requisito che rimane fisso. L’innalzamento dell’età minima per la pensione è dovuto a due fattori: l’aumento disposto dalla legge Fornero e la crescita dell’aspettativa di vita calcolata dall’Istat. Quest’ultima implica un rinvio di quattro mesi della pensione per tutti, uomini e donne, mentre il gradino introdotto dalla riforma va a colpire in particolar modo le donne. Le lavoratrici dipendenti del settore privato vedranno infatti aumentare l’età minima per la pensione a 65 anni e 7 mesi, contro i 63 anni e 9 mesi validi fino al 2015: ben 18 mesi in più, che sommati ai quattro validi per tutti portano al totale di 22. Le dipendenti pubbliche, il cui trattamento era stato parificato dalla riforma a quello degli uomini, dal primo gennaio vanno in pensione a 66 anni e 7 mesi. Un requisito che per le lavoratrici del privato entrerà in vigore nel 2018, quando l’età minima per la pensione diventerà uguale per tutti. Nei prossimi due anni andrà invece un po’ meglio per le lavoratrici autonome, che vedranno salire l’età minima di “soli” sedici mesi, da 64 anni e 9 mesi a 66 e un mese. Per gli uomini l’innalzamento sarà dei soli 4 mesi della crescita della speranza di vita, che porteranno la soglia minima a 66 anni e 7 mesi. Per poter andare in pensione in anticipo, invece, bisognerà aver maturato almeno 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. La Legge di Stabilità offre l’opportunità, per le donne che entro il 2015 compiono 57 anni e 3 mesi di età (58 le autonome) e 35 di contributi, di uscire dal lavoro già nel 2016, una volta atteso il periodo previsto dalla finestra mobile: un anno per le lavoratrici dipendenti, un anno e mezzo per le autonome.Le più penalizzate dall’innalzamento dei requisiti minimi sono le donne nate nel 1953: nel 2018, quando compiranno 65 anni e 7 mesi, sarà scattato un nuovo scalino, mentre nel 2019 ci sarà il nuovo adeguamento della speranza di vita, perciò saranno costrette a rincorrere la pensione fino al 2020. Nel 2016 scatteranno inoltre anche i nuovi coefficienti di trasformazione del montante contributivo (la quota dello stipendio accantonata negli anni per finanziare la pensione) previsti dalla riforma Dini del 1995: saranno inferiori di quasi l’1 per cento per gli uomini e cresceranno del 4,09% per le donne – a causa dell’aumento della loro età pensionabile. La quota contributiva dell'importo pensionistico, perciò, a parità di età di uscita per gli uomini risulterà più bassa perché sarà moltiplicata per un coefficiente minore.